Viene dalla Cina uno dei più bei film del concorso. E venendo dalla Cina non può che raccontare i cambiamenti epocali degli ultimi anni. Ma anche di quelli a venire, visto che...
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Si comincia con la grande euforia di fine millennio dunque, quando il balzo in avanti catapulta improvvisamente nella modernità e nel benessere il colosso asiatico, ma sono ancora vivi quei codici culturali millenari che garantivano l’identità e la coesione sociale. Si finisce nello sradicamento e nella solitudine, con un paese ormai snaturato, irriconoscibile, e in gran parte trasferito oltre confine.
Tutto il lungo epilogo è infatti ambientato e girato in Australia, dove il protagonista arricchito e divorziato va a vivere portandosi dietro il figlio (che ha chiamato Dollar!, ma con cui non può più comunicare perchè il padre non ha mai imparato l’inglese e il figlio poco a poco dimentica il cinese...). Detta così può sembrare una grande allegoria confusa e macchinosa, e tornano in mente precedenti illustri firmati da maestri come Wenders e Wong Kar-wai. Invece il film vive di idee semplicissime, fisiche, immediate, che aderiscono come una seconda pelle ai personaggi e al loro destino. A partire da quella prima scena di sfrenato ballo collettivo che traduce come meglio non si potrebbe il desiderio di cambiamento, la sete di piacere, la febbre di vivere che si è impadronita della Cina e dei cinesi.
In un festival avaro di vero cinema, finalmente un film che interroga corpi, spazi, luce, paesaggi, durata. Accordando sentimenti personali e mutamenti collettivi in una musica unica e speciale, nuova e insieme immediatamente comprensibile, che è il marchio distintivo dei grandi film. Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero