«Mi hanno chiesto: le va di fare una regia “solidale”? Che tradotto significa budget low cost, attori giovani, tanto entusiasmo, pochi soldi. E come fai a dire...
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Michele Placido incontra di nuovo Pirandello. «Un compagno di vita», spiega. E dopo essere stato per centinaia di volte l’Uomo dal fiore in bocca, il protagonista del film di Bellocchio “La scelta” tratto da “L’innesto”, e aver firmato tre regie pirandelliane, l’attore, regista, produttore pugliese, 72 anni, si confronta con i “Sei personaggi in cerca di autore”, al teatro Quirino, dal 20 novembre al 2 dicembre, e poi di nuovo in tour. «Io ho cominciato a teatro. Ho fatto l’accademia Silvio d’Amico anche se all’ultimo anno Ronconi mi prese per lavorare con lui e non potei finire il corso. Poi cinema, televisione, ma tanta, tanta prosa. Sono stato diretto da Calenda, Strehler, ho interpretato tutti i grandi classici, Shakespeare. Lo sottolineo perché un tempo certe cose si sapevano, oggi tra Facebook e Instagram gira ogni tipo di informazione, tranne le cose vere».
Trasmettere la professione alle nuove generazioni, una missione?
Un piacere? «L’importante non è insegnare, ma partecipare. Nel confronto c’è da imparare tutti. Io mi sarò imbattuto in non so quante generazioni e ogni volta è stato formativo».
Con cinque figli, lei i giovani di ogni età ce l’ha in casa. Quali sono le linee guida per tutti?
«Lavorare. Va bene parlare, comprendere. Alle 8 del mattino, però, bisogna mettersi in piedi e fare».
Investire su nuovi progetti, abbassare i cachet... Un gesto generoso e lungimirante: lo fanno anche altri suoi colleghi?
«I teatri sono in fallimento. Anche per gestioni spericolate. La gente non va al cinema. Bisogna ripensare un po’ tutto. I colleghi che possono, devono collaborare alla produzione. Io, per esempio, ho una piccola azienda con cui riesco a mandare avanti vari progetti, tenendo prezzi moderati. E ho lavorato con Boni, Haber, Binasco, il meglio che c’è sul mercato. L’esempio di Catania è importante, un vanto: per una città dove non si muove molto, esportare in tutta Italia un’operazione culturale come questa dei Sei personaggi, non è male. Fondamentale, certo, mantenere sempre un livello alto. Anni fa firmai la regia di un Don Giovanni per il Regio di Torino, con Noseda sul podio. Bellissima esperienza. E ogni tanto mi chiamano in dei centri minori... Faresti una Lucia di Lammermor, pochi giorni di prove. Ecco, questo no, non si può».
I sei personaggi chiedono che venga rappresentata la loro storia scomoda. Il teatro ha il compito di raccontare vicende ingombranti?
«Bisogna mettere in scena la vita senza giudicarla. A differenza della tv o dei social, il teatro non fa processi. S’interroga. E cerca una lettura fuori dal coro».
E al cinema?
«Al cinema ora vige una sorta di autocensura. E in tv è la stessa cosa. Per paura, si preferisce la mediocrità, il grigiore. Una bella scossa arriva dalle serie americane. Quelle si che raccontano la realtà. E utilizzano un linguaggio che prende tutti».
Il suo Pirandello arriva a tutti?
«Non ho spinto su una lettura filosofeggiante. Mi sono attenuto ai fatti. Un noir, una famiglia e le sue tragedie. Una storia che l’autore si rifiuta di portare avanti perché affonda le radici in un dolore lontano. Tra realtà e finzione. Al Valle quando debuttò il pubblico interruppe lo spettacolo. A Parigi capirono invece la forza dirompente del testo, degli attori che comparivano dalla sala. Teatro nel teatro. Io ho cercato di avvicinare il pubblico a quella rivoluzione».
Progetti?
«Caravaggio.
Il Messaggero