Anche gli scrittori dicono le parolacce, parola di linguista

Luca Ricci
Giacomo Leopardi, il poeta che per noi è il paradigma della sensibilità - sebbene talvolta annichilito dal suo pessimismo cosmico - in una lettera al fratello riguardo al...

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Giacomo Leopardi, il poeta che per noi è il paradigma della sensibilità - sebbene talvolta annichilito dal suo pessimismo cosmico - in una lettera al fratello riguardo al riserbo femminile ottocentesco scriveva così: “Queste bestie femminine… sono piene d’ipocrisia, non amano altro che il girare e divertirsi non si sa come, non la danno, credetemi”. Questo e altri succulenti esempi fa il linguista Giuseppe Antonelli- folgorato sulla via del turpiloquio (come dice di se stesso a proposito della sua vocazione per il vocabolario)- ne “Comunque anche Leopardi diceva le parolacce” (Mondadori, pag. 177, 12,00 €).




Il fatto è che nessuno ha mai parlato come un libro stampato, neanche gli scrittori. Dice Antonelli: “Una lingua, per dirsi viva, non cambia solo nel tempo, nello spazio e nella società, ma anche a seconda dei diversi tipi di uso: dell’argomento, del contesto, dell’interlocutore, dell’effetto che si vuole ottenere”. Così anche Leopardi diceva le parolacce, e poteva scrivere una missiva al fratello simile, per tono e registro, a una canzone di Max Pezzali.



L’italiano puro non è mai esistito, insomma, se non come errore percettivo da parte dei parlanti e scriventi moderni, sviati come dice Luca Serianni “dall’immagine fatalmente libresca che gli scrittori del passato, i classici, finiscono con l’assumere ai nostri occhi”. Ecco allora che i puristi diventano i nemici delle parole, quelli che vorrebbero una lingua fossilizzata nelle proprie regole, ferma nei propri dogmi di partenza, impossibilitata a modificarsi, cioè a vivere. Ancora Giacomo Leopardi, ma stavolta dallo Zibaldone: “Quelli pertando che essendo gelosissimi della purità e conservazione della lingua italiana, si scontorcono, come dice il Bartoli, ad ogni maniera di dire che non sia stampata sulla forma della grammatica universale, non sanno che cosa sia né la natura della lingua italiana che presumono di proteggere, né quella di tutte le lingue possibili”.



Non a caso i puristi spesso e volentieri sono diventati i puritani della lingua. Così i fascisti nei libri di scuola bandivano- in quanto francesismi travestiti- il blu (bisognava usare azzurro o turchino), il timbro (bollo), il flacone (boccetta), il dettaglio (particolare), e persino il rubinetto (chiavetta). Da guardiani a censori il passo è molto breve, si sa. Al contrario, sembra suggerire a ogni riga Antonelli, un linguista non dovrebbe mai essere troppo schizzinoso. Le regole vanno conosciute per guadagnare in flessibilità, per mantenere la spugna della lingua italiana morbida e porosa, non per costruire una sorta di mausoleo simbolico nel quale osservare parole, modi verbali, segni d’interpunzione defunti.



Ciò non vuol dire che sia tutto ammissibile. Ormai celebre l’errore di Roberto Saviano, che in un tweet scrisse: “Qual’è”. Piovvero critiche e lui si difese dicendo che anche a Pirandello e Landolfi scappava sempre un apostrofo di troppo. Invece, proprio perché la lingua cambia, talvolta i modelli del passato non possono valere per il presente. Gli errori esistono solo entro l’orizzonte mobile del cambiamento. Ancora Antonelli: “Se si ama la propria lingua, non c’è peggior delitto di volerla seppellire viva. Di imbalsamarla con norme e precetti considerati astrattamente eterni. Di ibernarla in nome di una mai esistita èra glaciale della perfezione”.




Twitter: @LuRicci74 Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero