Se siete donne, e avete più di 40 anni, avete sempre sognato che qualcuno lo facesse con voi. Se siete uomini della stessa età avreste voluto farlo. Ma se, per puro...
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Cantata da un certo Richard Sanderson, che dopo l’enorme successo del «classico della musica pop sentimentale», come lo definisce oggi Wikipedia, è scomparso completamente dalla scena musicale. Un po’ come è successo ad Alexander Sterling, l’attore che nel film interpreta Mathieu, il ragazzo di cui si innamora Sophie Marceau-Vic. Di lui oggi nessuno ricorda altro, se non la rada peluria sopra il labbro da preadolescente e quel gesto che, probabilmente, lo starà ancora tormentando. Eh sì perchè il momento in cui Mathieu mette le cuffie del walkman a Vic, mentre tutti intorno si scatenano sulle note di un pezzo disco, per poter ballare dolcemente abbracciato a lei sulle note di quel terribile ritornello-tormentone "Dreams are my reality" ("i sogni sono la mia realtà"), è considerata una delle scene simbolo dell'adolescenza anni ottanta (lo dice anche Wikipedia!).
E anche chi oggi vorrebbe (o fa finta di) dimenticarsene ha un posticino per lui nella sua memoria. E ne è assolutamente geloso. Perché in quel gesto c’è tutto il fascino della adolescenza e della pre-adolescenza. E perché, ammettiamolo, era molto più bello quando il problema di un’intera giornata, o di una intera settimana, era indossare i jeans giusti e farsi trovare all’angolo della strada, in atteggiamento assolutamente ‘sciolto’, giusto al momento del passaggio della ‘lei’ o del ‘lui’ dei nostri sogni. Sogni che erano davvero in quel momento la nostra realtà, come recitava il ‘profondo testo’ di Reality, ma che, come tutti gli stati onirici era destinato a durare poco. Molto poco. Il tempo di un 45 giri (vista l’epoca), di un bicchiere di Coca Cola o di un pacchetto di popcorn. Il tempo delle mele (che lo si ami o lo si odi, poco importa) è tutto questo. È le feste con la luce spenta, la palla stroboscopica, i genitori chiusi in cucina e i fratelli più piccoli mandati a controllare per sapere «cosa sta succedendo». Gli appostamenti sul marciapiede di fronte al portone della casa o della scuola del ‘lui’ o della ‘lei’ di turno. Gli attraversamenti della città in autobus, metro, a piedi per farsi trovare all’uscita della partita di calcio o della lezione di danza, con l’aria di chi passava lì per puro caso. I bigliettini fatti arrivare tramite l’amico dell’amico che poi, in caso di fallimento, venivano immediatamente disconosciuti. Le dichiarazioni scritte sui diari ma non firmate, nella speranza che l’altro o l’altra intuissero chi si celasse dietro quelle che ci sembravano le parole più romantiche e significative di sempre. I cuori sugli zaini dell’Invicta, con le lettere cancellate ogni volta che un amore finiva. E, naturalmente, Il tempo delle mele è il walkman. Pesante, ingombrante, esteticamente brutto. Con quelle cuffie fastidiose dai colori improbabili e quel materiale spugnoso che finiva sempre con il rompersi. Con quelle cassette il cui nastro si incastrava e toccava poi rimetterlo a posto con la penna bic. O che si rompeva e bisognava incollarlo con lo smalto trasparente, tagliandone via un pezzettino che avrebbe portato per sempre con sé un brandello di melodia, creando una nuova canzone che sarebbe rimasta così nella nostra memoria musicale.
Ecco cos’è Il tempo delle mele.
Il Messaggero