Dal 25 febbraio all’8 marzo al Teatro Argentina di Roma, Alessandro Serra a confronto con la più grande partitura sinfonica per anime mai scritta Il giardino dei...
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«Un valzerino allegro in una commedia intessuta di morte - spiega ancora Alessandro Serra - Comicità garbata, mai esibita, perfetto contrappunto in un’opera spietata e poetica. I personaggi ridono e si commuovono spesso, il che non significa che si debba piangere davvero, è piuttosto uno stato d’animo, scrive Čechov in una lettera, che deve trasformarsi subito dopo in allegria. Velando di lacrime gli occhi dei suoi personaggi Čechov suggerisce la visione sfocata della realtà sensibile, una realtà spogliata dai contorni. Come i vetri delle vecchie case, opachi, deformi, pieni di impurità fornivano una versione estetica della vita oltre la finestra, così le lacrime agli occhi erodono le forme. Gli oggetti e le persone sfumano l’uno nell’altro, i colori si sfaldano in mezzetinte, i lineamenti e le voci si disciolgono». «Tanto che a un certo punto non si sa più chi è che parla, se una voce proveniente da un’altra stanza o noi stessi con le parole di un altro - conclude - La scrittura stessa agevola questo dissolversi del centro e del focus. L’opera è cosparsa di piccoli impedimenti e fraintendimenti, anche linguistici, rotture sintattiche, pianti, canti, apnee, russamenti, borbottii e filastrocche, e poi i suoni. Tutto concorre a una partitura musicale che, scrive Mejerchol’d, è come una sinfonia di Čajkovskij». Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero