"Fino a qui tutto bene", un film per la generazione che non si arrende

"Fino a qui tutto bene", un film per la generazione che non si arrende
C'è un piccolo grande film che da quando ha vinto il Premio del pubblico al Festival di Roma continua a far parlare di sé. Si chiama Fino a qui tutto bene, lo ha diretto...

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C'è un piccolo grande film che da quando ha vinto il Premio del pubblico al Festival di Roma continua a far parlare di sé. Si chiama Fino a qui tutto bene, lo ha diretto l'anglo-pisano Roan Johnson, nome bizzarro e talento sicuro, e sarà in sala il 19 trainato solo dall'entusiasmo con cui è stato fatto e che genera in chi lo vede.


Per la vivacità e l'esattezza con cui coglie gli umori dei giovani sospesi tra fine studi e inizio dell'età adulta, potrebbe essere l'Ecce Bombo dei nostri anni. Stesso divertimento feroce fino all'autolesionismo, stesso velo di malinconia che avvolge i protagonisti, tre ragazzi e due ragazze, seguiti nell'ultimo weekend insieme prima di lasciare la casa che hanno condiviso per anni. Con la furia e il candore, la sensualità e la sfacciataggine che sono il dono della loro età. Anche se le uniche certezze che lascia la crisi, come dover partire per lavorare, sono negative.



STORIE ESILARANTI

«Tutto è nato da un documentario commissionato dall'Università di Pisa sugli studenti», racconta Johnson con la sua compagna Ottavia Madeddu, co-sceneggiatrice del film, segretaria d'edizione e anche madre del piccolo Jacopo, «nato agitato» perché dal quinto mese di gestazione stava anche lui sul set. «Mi aspettavo lamenti e maledizioni. Ho trovato orgoglio, determinazione e storie assurde e esilaranti che mi hanno riportato ai miei anni da studente. E sono finite in buona parte nel copione».



La riuscita del film deve molto anche ai cinque formidabili attori, Alessio Vassallo, Paolo Cioni, Silvia D'Amico, Guglielmo Favilla, Melissa Anna Bartolini. «Così bravi che sembrano “veri”, mentre escono tutti dall'Accademia o dal centro Sperimentale». Ma sono stati decisivi anche la mancanza di mezzi e il metodo, brutale ma efficace, seguito dal regista. «Tutti insieme nella stessa casa per un mese, come i personaggi, prima di girare». Mentre Johnson saltava la classica trafila deprimente, il Ministero, la Rai, le Film Commission, per girare tutto di slancio. Senza subire gli immancabili diktat produttivi mentre il tempo passa e gli entusiasmi sbollono.



«Dopo il mio primo film», il già notevole I primi della lista, «dovevo lavorare di nuovo con la Palomar. Ma prima di me c'erano Amelio, Martone... passava troppo tempo». Morale: tutti hanno lavorato in partecipazione, i compensi arriveranno solo dagli incassi, ma intanto hanno fatto ciò che volevano proprio come volevano, e la differenza si vede. «Sia chiaro: è un'esperienza, non un modello», precisa realistico Johnson. «Il lavoro va pagato, ogni film ha il suo budget e se il budget è grosso devi avere nomi noti, ovvio». L'essenziale è tener fede alla battuta-tormentone del film: «E che facciamo, ci arrendiamo?». No naturalmente. Anche se in Italia specie al cinema, la resa strategica va sempre fortissimo. Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero