Finalmente un film italiano che pensa in grande: per ambientazione, linguaggio, percorso narrativo, sentimenti in gioco. Senza esibizionismi d'autore, ma con una regia sempre...
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Lui si chiama Fausto e fa il cameriere a Parigi. Trattandosi di Elio Germano non ha bisogno di parlare molto, quello che pensa se lo porta scritto in faccia, ma quando incontra Nadine (Àstrid Bergès-Frisbey, notevole anche lei) diventa addirittura loquace. Nadine infatti è come lui, solo molto più bella. Ha vent'anni e non sa cosa fare di sé, dunque tenta un provino da fotomodella, con tante altre ragazze come lei ammassate in uno stanzone nell'hotel extra lusso in cui lavora Fausto. Le ragazze non hanno nemmeno un viso, sono solo corpi, numeri, bestiame: un branco in mezzo a cui catturare il purosangue. Ma quando Fausto incontra Nadine, per puro caso, sola sulla terrazza di quell'hotel da 15.000 euro a stanza, succede l'imprevedibile. Fausto vede Nadine, e lei vede lui. In qualche modo si riconoscono. Ma non fanno quasi in tempo ad accorgersene che succede qualcosa di terribile e insieme banale, Fausto finisce in galera. E quei due che si sono appena sfiorati si trovano come sospesi nel vuoto, legati uno all'altro. Cadranno o resteranno in equilibrio, coordinando movimenti e sentimenti?
AMBIZIONI
Bastano queste prime scene per capire le ambizioni di Alaska, terzo film di Claudio Cupellini dopo Lezioni di cioccolato, Una vita tranquilla e i due Gomorra tv. Un mélo contemporaneo, ma denso di colpi di scena come un feuilleton ottocentesco, che fonde le suggestioni più varie (da Bresson e Truffaut, dice Cupellini, ai noir di Jacques Audiard, e questo lo diciamo noi), anche se sulla distanza sbanda un po'. Dopo i due anni in carcere infatti, con i dubbi lancinanti di Fausto (riapparirà la bella Nadine?) e le sue mille lettere, tutto cambia. Ora siamo a Milano, la vita ricomincia, appaiono nuovi ambienti e personaggi, suggestivi ma degni di maggiori sviluppi (Valerio Binasco bandito romantico e socio di Germano, Elena Radonicich ingenua ragazza ricca, Pino Colizzi padre della ragazza ricca, eccetera). Come se il film, nella sua generosità, avesse un'anima da serie e procedendo, paradossalmente, perdesse un po' spessore.
Diverso e stimolante anche The Experimenter di Michael Almereyda, biopic visionario dello psicologo Stanley Milgram, scopritore dei famosi “sei gradi di separazione” ma soprattutto autore dell'agghiacciante esperimento sull'autorità in cui persone comuni venivano invitate a infliggere scosse elettriche a sconosciuti per ultimare un test. Una specie di prova sperimentale della banalità del male teorizzata in quegli anni da Hannah Arendt, resa con angosciata partecipazione da un film sempre su due piani, uno fattuale, l'altro interiore, con retroproiezioni e altre bizzarrie, insolito e affascinante.
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Il Messaggero