Festival di Cannes, "Carol" di Todd Haynes: l'amore "proibito" di una madre

Festival di Cannes, "Carol" di Todd Haynes: l'amore "proibito" di una madre
Due donne molto diverse, un amore proibito, la New York tutta colori pastello e regole pesanti come il piombo dei primi anni 50. È il bellissimo Carol di Todd Haynes, il regista...

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Due donne molto diverse, un amore proibito, la New York tutta colori pastello e regole pesanti come il piombo dei primi anni 50. È il bellissimo Carol di Todd Haynes, il regista di Mildred Pierce e soprattutto di Lontano dal Paradiso, instancabile archeologo dei sentimenti che qui torna all’epoca di Eisenhower. Se in Lontano dal Paradiso era di scena l’omosessualità maschile, vista con gli occhi della moglie che scopriva il marito a letto con un altro uomo, qui l’ottica è ribaltata. Stavolta la “colpevole” è la donna (una regale Cate Blanchett), moglie di un ricco banchiere e madre di una bambina, che per vivere la propria vita rischia di perdere non solo la rispettabilità e la posizione sociale, ma la custodia della figlia.




Anche se il film in realtà segue un doppio punto di vista. Accanto alle vicissitudini di Carol (Cate Blanchett) seguiamo infatti quelle meno vistose ma altrettanto drammatiche della ragazza di cui si è inamorata. La modesta Therese (Rooney Mara) impiegata di un grande magazzino al reparto giocattoli (l’ambientazione ispira a Haynes un paio di scene meravigliose per finezza di regia e penetrazione psicologica), che sogna di fare la fotografa e non è nemmeno del tutto consapevole delle proprie inclinazioni. Basterebbe lo sguardo penetrante e insieme delicato con cui Haynes pedina le sue due protagoniste, il gioco di seduzione reciproca, lontano anni luce dalle frenesie e dal consumismo attuali, il loro lento svelarsi l’una all’altra, a fare di Carol un grande film, forse il più bello tra tutti quelli visti finora in concorso.



Anche per l’uso una volta tanto creativo dell’ambientazione, da cui grazie a un gioco di luci e inquadrature di rara sapienza Haynes e i suoi collaboratori, costumista, scenografi, direttore della fotografia, estraggono autentici tesori. Scavalcando anche l’ipoteca che pesava su Lontano dal Paradiso, troppo vistosamente indebitato con i grandi melodrammi di Douglas Sirk per non sapere di calco, fino a imporre un modo solidamente classico e insieme davvero nuovo di fare cinema in costume. Se i Coen non sono allergici al genere, ne riparleremo la sera dei premi.
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Il Messaggero