“Questa è una città che offre una materia sconfinata per le narrazioni: basta amare la realtà, avere il cuore aperto e buoni occhi per vedere”,...
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E Napoli è il centro simbolico e reale della “Dismissione”, il suo romanzo più famoso che è poi un grande romanzo industriale in cui Rea si offre come erede di Carlo Bernari, Ottiero Ottieri, Paolo Volponi, l’ideale genealogia dello stentatissimo filone nostrano di “letteratura e industria”. Protagonista è un operaio simbolo, Vincenzo Bonocore il quale racconta la vita e la morte dell’acciaieria di Bagnoli che a Napoli ha dato speranza a migliaia e migliaia di lavoratori. La fabbrica che, sotto la responsabilità di Bonocore viene lentamente e scientificamente demolita, è lo specchio di una vicenda umana che altrettanto lentamente e inesorabilmente decade e si consuma. Il romanzo si presenta nella forma di un’inchiesta che trae spunto dalle conversazioni dello scrittore giornalista con l'ex operaio, divenuto tecnico d'area dell'acciaieria, addetto alle colate continue, con l'incarico di dirigere lo smontaggio del suo stesso impianto, venduto alla Cina.
Pervade nelle pagine di Rea uno storicismo freddo, altero, rigoroso, vigile con la consapevolezza che Bonocore e l’Ilva siano un piccolo segmento locale di un processo globale. Rea fornisce una limpidissima prova di letteratura al limite tra invenzione e reportage presentandoci una vicenda reale attraverso il punto di vista di una persona che è dentro le cose, che vive su di sé, sulla propria pelle, nella propria mente e nei propri gesti, nell’intera esistenza, il senso di una trasformazione, di un piegarsi e volgersi del tempo e della storia. E lo stesso metodo lo aveva utilizzato in vari libri precedenti, come nell’appassionante “Mistero napoletano, indagine in forma di diario sulle ragioni del suicidio di Francesca Spada, giornalista culturale de «L’Unità», dove da storia privata l’indagine si trasformava nella storia collettiva di un’intera classe politica, di una generazione. E nel suo ultimo libro, “Il caso Piegari. Attualità di una vecchia sconfitta” uscito nel 2014, lo scrittore era tornato a raccontare il Pci degli anni Cinquanta.
Rea aveva vinto il “Viareggio” nel 1995 con “La dismissione” e il Campiello con “Fuochi fiammanti a un’hora di notte” nel1999, un romanzo che fu definito da Raffaele La Capria una “grande fiaba antropologica”, non veloce e leggera come in genere sono le fiabe, ma lenta e ponderosa come deve essere un romanzo d’impianto articolato e complesso. In esso l’inchiesta si svolge questa volta tra personaggi di fantasia, del tutto inventati e riguarda il passato remoto, quell’origine lontana che si configurò nel mito primigenio della Grande Madre che per Rea è un supporto narrativo per circoscrivere l’ambito del suo immaginario. Ma sotto la metafora narrativa c’era sempre la convinzione che Rea aveva più volte ribadito: che oggi come oggi Napoli è un’immensa inafferrabile nebulosa con un intreccio di antichi mali e di nuovissimi, legati alla volgarità del benessere e del denaro. Ma “senza enfatizzare il Sud come categoria mentale o sentimentale è anche una città in cui il Sud mostra al tempo stesso i suoi aspetti migliori e peggiori, con punte di eccellenza e di sottosviluppo. Tutto ciò le affida un ruolo particolare: quello di essere anello di congiunzione tra Nord e Sud del mondo”. Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero