A Milano è bastato poco più di un'ora e mezza a Eminem per riprendersi il titolo di 'Rap God'. Sono passati quasi vent'anni da quella 'My Name...
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A partire dalla canzone che apre il concerto, dopo un'introduzione cinematografica in cui il rapper veste i panni di un Godzilla che devasta una città: è 'Medicine Man', dall'album 'Compton' di Dr. Dre, quasi un omaggio alla leggenda dell'hip-hop californiano che scoprì e lanciò il giovane dai capelli ossigenati e dal flow rapidissimo. Un fenomeno unico che sovvertì gli equilibri del rap americano: un artista non proveniente dai palazzoni popolari delle periferie metropolitane, ma dalle roulotte dei sobborghi depressi del Midwest; un bianco capace di stupire e ispirare l'audience afroamericana. Le radici di Eminem sono sulla scena, con un'antenna radiofonica con il logo 313, riferimento alle prime stazioni locali di Detroit che gli diedero spazio. Tutt'altro scenario oggi, con boati e cori fin da subito, su '3 a.m.', 'Square Dancè e 'Kill Yoù. Mentre i fuochi d'artificio illuminano la serata, un ottetto d'archi fiorisce molti dei beat, dando un passo epico alla veloce (e acclamata) successione di 'White Americà e 'Rap God'. Su questo brano i veri fuochi d'artificio sono quelli delle barre di Eminem, rime intricate, serrate e rapidissime che ne mettono in mostra il talento lirico. Non solo le sue acrobazie l'hanno reso un fenomeno rivoluzionario del genere: ma una poetica intimista che emerge nelle rap ballad.
Più del ventennale del suo successo, per Marshall Mathers, conta il decennale della sua astinenza da sostanze, recentemente annunciato pubblicamente.
Il Messaggero