Davide Livermore allo Sferisterio con Don Giovanni: «Non ci darem la mano... ma vincerà la fantasia»

«Dalla peste alla censura, l’arte ha sempre trovato il modo di aggirare i vincoli. Anzi, affrontare i vincoli è proprio il modo per raccontare la...

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«Dalla peste alla censura, l’arte ha sempre trovato il modo di aggirare i vincoli. Anzi, affrontare i vincoli è proprio il modo per raccontare la società. E chi se ne importa del bacio tra Zerlina e Don Giovanni. La forza comunicativa prevarrà sulle regole. Noi non molliamo mai».


Davide Livermore è pronto a ripartire, con un Don Giovanni a norma di sicurezza, dal 18 luglio all’8 agosto allo Sferisterio di Macerata. Torinese, 52 anni, ha firmato due inaugurazioni consecutive alla Scala di Milano (Attila e poi Tosca nel 2019): soltanto Ronconi, prima di lui.

È regista d’opera e di prosa dal 1998: prima ha lavorato come scenografo, costumista, ballerino, sceneggiatore, attore e cantante, esibendosi accanto a Pavarotti e Domingo. È stato sovrintendente del Reina Sofía di Valencia ed è stato appena nominato direttore del Teatro Nazionale di Genova.

Il 18 luglio il capolavoro di Mozart di cui firma la regia (in coproduzione con le Chorégies d’Orange) inaugura il Festival di Macerata che ha presentato il cartellone dell’edizione a misura Covid. Tre settimane di spettacoli, con interpreti distanziati e pubblico con le mascherine, per massimo ottocento spettatori a sera.

Per il Don Giovanni, che è andato in scena l’estate scorsa in Francia e che sarà ripensato per lo Sferisterio, cantano, nel ruolo del protagonista Mattia Olivieri, Leporello sarà Tommaso Barea, Donna Anna Karen Gardeazabal, mentre Donna Elvira e Don Ottavio saranno Valentina Mastrangelo e Giovanni Sala. E Lavinia Bini Zerlina. Sul podio il Maestro Francesco Lanzillotta, direttore musicale del festival.

Là ci darem la mano... Come faranno Don Giovanni e Zerlina che non potranno toccarsi?
«Ora non ci voglio pensare... è tutto in divenire, forse qualcosa cambierà. Sicuramente non farò indossare ai cantanti dei guanti tipo preservativo. Il gioco delle parti può essere reinventato con delle immagini. La storia dell’arte è piena di persone che hanno superato il limite. Verdi lo ha fatto nel Rigoletto, rielaborando il censurato dramma di Hugo e Puccini in Tosca quando trova il modo di non nominare il Papa. Non mi sto certo paragonando a loro, semplicemente affermo che il modo di andare in scena c’è. Il teatro è vita civile e deve ripartire. Ce la faremo noi, ce la faranno tutti».

Un’opera sulla seduzione dopo mesi di distanziamento sociale. Un caso?
«Don Giovanni era prima di tutto un indomito, un personaggio che ha sconvolto le menti. Io voglio raccontare quell’uomo. Le regole non metteranno paletti alla sua rivoluzione libertina. Anche se la forza propulsiva potrebbe essere solo immaginaria».

In scena carrozze e automobili: un mito che attraversa i secoli?
«Sono partito dalla ribellione. Don Giovanni rappresenta un atto rivoluzionario. Oggi, saremmo in grado di armare una rivolta simile? La risposta è no. Quindi propongo un uomo morente che semplicemente immagina, ho rievocato il suo strazio di non aver goduto amori, passioni, lotte. Della frustrazione di un’esistenza virtuale. Che è un po’ la realtà di questo periodo. E non soltanto per il Covid. Penso al caso di George Floyd a Minneapolis dove la gente si è fermata a filmare senza intervenire. Trovo che non sia mai stato così urgente condurre una vita attiva».

Quindi la carica rivoluzionaria del suo Don Giovanni sta nella consapevolezza di essere un personaggio virtuale?
«Il mio Don Giovanni muore subito, nel duello con il Commendatore. C’è un silenzio importante un attimo dopo, che mi ha ispirato. Da quel momento comincia un’altra vita, quella che rimane inespressa. La storia di una rivoluzione che non può compiersi».


Lei dirige il Teatro nazionale di Genova. Lì da dove ripartirete? 

«Non ci siamo mai fermati. Sulla tv Primo Canale abbiamo proposto programmi per tutto il periodo. Quest’estate saliremo su un camion dove allestiremo spettacoli in collaborazione con il Carlo Felice. E a settembre su una chiatta, un pontone ancorato al porto, trasformato in un’arena. Non ci bloccheranno. La cultura è un bene straordinario e la qualità della vita passa per il teatro. Siamo in un momento difficile, non soltanto per la pandemia. Vediamo cose, parlo di chiusure e razzismo, che hanno bisogno di essere lavate con l’arte».  Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero