I tacchi, certo. Le mani, si sa. Ma anche il ticchettio delle monete che cadono su una lastra di metallo, il boato prodotto dai pedali della cassa di una batteria, il fruscio...
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Nel Fla. Co. Men, lo spettacolo di Israel Galván, tra i più attesi di Biennale Danza 2018 (la rassegna chiude oggi), tutto suona, tutto vibra, tutto è flamenco. Spettatori compresi che hanno accompagnato una performance di spirito andaluso allo stato puro con altrettanta energia ed entusiasmo, applausi, urla (guapo!), risate.
Dopo aver trasformato in ballo pagine di Kafka e la corrida, il silenzio e l'Olocausto, forte di collaborazioni con i “grandi vecchi” del flamenco (Bobote) e i grandi nuovi del repertorio contemporaneo (Akram Khan), con un curriculum di consensi e qualche pollice verso dei tradizionalisti spagnoli, Galván presenta a Venezia quello che sul suo sito online definisce «un concerto». «Ballo da quando avevo cinque anni e adesso in età matura mi godo appieno la scena», racconta il danzatore e coreografo sivigliano di 45 anni che gira l'Europa con la sua compagnia-carovana composta da cantaores, percussionisti e musicisti che lo scatenano tra melodie antiche, canzonette (mueve le colita...), free jazz e vecchi blues. «Il flamenco è tradizione? È innovazione? Io lo ballo da quando cammino», spiega il figlio d'arte, «e oggi lo intendo così, destrutturato, come recita il titolo, ricomposto a modo mio. Se questo voglia dire contemporaneo, non so. Non ho l'esigenza di mettere etichette».
In scena, al teatro delle Tese, nell'angolo più suggestivo dell'Arsenale, gioca con i passi e con se stesso, con le gonne da sivigliana e i bustini da matador, citando gesti da manuale e movimenti burloni, in un flusso ininterrotto che attraversa malinconia e ironia, silenzio e bombardamento acustico, mitragliate di fantasia e virtuosismo, grande scuola e patrimonio di strada. «Prendo ispirazione dalla vita, dall'arte, dalla cronaca», spiega Galván, occhi scuri, mani che parlano, con una tuta da hip hop e gli stivaletti per taconear, «accolgo le suggestioni e lascio il corpo libero di elaborarle e riproporle sotto i riflettori».
E si presenta come un vero e proprio manifesto alla libertà del corpo e al desiderio di raccontare verità, anche lo spettacolo inaugurale “Radical Vitality, Solos and Duets”, firmato dalla curatrice Marie Chouinard che ha aperto le danze il 26 scorso al Piccolo Arsenale.
Una Biennale che rende omaggio all'atto vitale, con un programma che sembra un girotondo di corpi liberi, molto “indisciplinati”, senza bandiere di appartenenza a scuole, maestri, metodi o categorie, quello che per dieci giorni si è dato il cambio sotto i riflettori, dagli interpreti di richiamo assoluto (il Leone d'Oro alla carriera Meg Stuart, Marie Chouinard, curatrice di questa edizione, Xavier Le Roy con una sua Sacre du Printemps, Faye Discroll, Jacques Poulin-Denis autore di uno spettacolo per danzatore e tapis roulant), ai quindici nuovi talenti, tra i 18 e i 23 anni, selezionati con il bando di Biennale College e preparati al debutto ufficiale dopo tre mesi di lavoro da Marie Chouinard per “24 Préludes da Chopin” e da Daina Ashbee per “Like a trail through a forest...”.
Arrivano da ogni parte del mondo, con una lettera di motivazione e un video di presentazione in borsa, così come gli aspiranti registi, coreografi, attori, musicisti, autori, che ogni anno frequentano questa sorta di università dello spettacolo dal vivo, dove in cattedra salgono i professionisti di ogni settore e le aule sono il palcoscenico. «È una grande emozione avere qui tutti questi giovani talenti», spiega il presidente della Biennale Paolo Baratta, «e vederli interagire con i maestri della storia. Ma soprattutto riescono a cogliere lo spirito di questi spettacoli. È successo nella danza quello che è accaduto nell'arte», aggiunge, «I creativi, oggi, si sentono svincolati da qualsiasi riferimento a estetiche o a correnti e procedono completamente liberi. Questa è la dodicesima edizione della rassegna sulla danza, ma se contiamo anche le stagioni in cui Carolyn Carlson era qui con i suoi spettacoli, gli anni in cui abbiamo ospitato balletti diventano venti. E abbiamo assistito a un'evoluzione straordinaria che assomiglia molto al percorso di altre discipline. I coreografi si sono riavvicinati alla danza, non scappano più, ma lasciano il corpo libero di manifestare ansie e gioie, angosce e utopie. Ognuno a suo modo. E i giovani del College procedono passo passo sullo stesso cammino, spinti da un'esigenza di verità, come i colleghi pittori, musicisti, attori, registi. I protagonisti delle Biennali del futuro». Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero