Il Cristo Portacroce di Michelangelo torna a Roma dopo 14 anni, in mostra ai Musei capitolini

Il Cristo Portacroce di Michelangelo torna a Roma dopo 14 anni, in mostra ai Musei capitolini
La storia della sua scoperta sarebbe degna di un best seller in stile Dan Brown. Un’avventura sul filo dell’emozione, fatta di capolavori nascosti, chiese di campagna,...

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La storia della sua scoperta sarebbe degna di un best seller in stile Dan Brown. Un’avventura sul filo dell’emozione, fatta di capolavori nascosti, chiese di campagna, ricerche d’archivio, antiche carte. È così che dopo secoli di oblio riaffiorava nel 2000 a Bassano Romano il Cristo Portacroce di Michelangelo, quella prima versione eseguita tra il 1514 e il 1516, e lasciata incompiuta dal Buonarroti per l’emergere improvviso nel marmo lattiginoso della guancia di una vena nera (seguita vent’anni dopo dalla seconda versione oggi visibile nella chiesa di Santa Maria sopra Minerva). E a distanza di 14 anni dalla scoperta, che lo portò a Roma per la mostra «Caravaggio e i Giustiniani», il Cristo torna per la prima volta nella Capitale, protagonista della mostra «Michelangelo. Incontrare un artista universale» che si aprirà dal 27 maggio ai Musei Capitolini, prodotta e organizzata dall’associazione culturale MetaMorfosi presieduta da Pietro Folena per i 450 anni dalla morte del Buonarroti, sotto la cura di Cristina Acidini. «L’opera ci porta all’interno della creatività di Michelangelo, ci fa capire il suo modo di lavorare - avverte la Acidini - Ci lascia vedere come in un primo momento abbia tentato di incorporare il difetto nel progetto artistico. La vena nera è inclusa, infatti, in una piega d’espressione del viso. Si percepisce il tentativo di andare avanti e utilizzare quello che doveva essere un bel blocco di marmo, ma l’espediente non è sufficiente e Michelangelo ha dovuto abbandonarlo». E come sottolinea Folena, «L’eccezionale ritorno a Roma dell’opera rende più suggestivo il confronto con il Cristo della Minerva».




A scoprire il capolavoro fu la storica dell’arte Irene Baldriga, mentre eseguiva dei sopralluoghi in preparazione della mostra curata da Silvia Danesi Squarzina. Tappa, Bassano Romano, chiesa di San Vincenzo Martire. «Fui fortunata - ricorda - quel giorno incontrai un monaco che mi fece entrare in sacrestia. E lì notai la statua: era cementata su un altarolo e impolverata». Eppure ne comprese la qualità: «Da vicino notai la vena nera che caratterizza il volto. Immediatamente la ricollegai alle fonti che parlano dell’abbandono da parte di Michelangelo per quel difetto». Fu determinante la ricerca della studiosa Ludovica Sebregondi Fiorentini, che aveva pubblicato le lettere di Francesco Buonarroti e Michelangelo il Giovane, eredi del genio, da cui si evince che il Cristo abbandonato era disponibile sul mercato dell’arte di Roma, potenziale acquisto dei Giustiniani. Fondamentale, riflette Baldriga, fu il restauro di Rossano Pizzinelli: «Fu lui a rimuovere il perizoma di bronzo per verificare la completezza del nudo della statua, conditio per essere opera di Michelangelo». E aveva tutto. Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero