Chris Cornell, Kurt e gli altri: quel "maledetto" gruppo di amici di cui fa parte una generazione intera

Chris Cornell, Kurt e gli altri: quel "maledetto" gruppo di amici di cui fa parte una generazione intera
Say hello to heaven. E dire che una delle sue performance vocali più indimenticabili è proprio nella prima traccia di Temple of the dog, album che sarebbe diventato...

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Say hello to heaven. E dire che una delle sue performance vocali più indimenticabili è proprio nella prima traccia di Temple of the dog, album che sarebbe diventato una pietra miliare del grunge. Chris Cornell in quel brano cantava lo struggente saluto della comunità musicale di Seattle ad Andrew Wood, frontman dei Mother Love Bone. Cornell cantava il dolore e lo choc per la perdita improvvisa di uno di loro, la parte forse più importante di quel gruppo di amici disillusi e arrabbiati che di lì a poco, senza saperlo, avrebbe incarnato il riscatto di un'intera generazione. Il grunge ebbe inizio così: da un dolore straziante e inaspettato che poteva essere superato solo gridando al mondo quanto tutto fosse folle e ingiusto, ma anche quanto fosse necessario continuare a vivere e ricominciare, sempre.


Era il 1990 quando Wood, geniale e divertente cantante 24enne, il più amato e stravagante di quel gruppo di amici, morì di overdose. Fu Cornell, compagno di stanza di Wood e leader dell'altra band più famosa di Seattle, i Soundgarden, a prendersi sulle spalle i Mother Love Bone, rimasti “orfani” del loro Andy. Come si fa tra fratelli. Fu lui a riunire Stone Gossard e Jeff Ament, chitarrista e bassista dei M.L.B. nei Temple of the dog, insieme al suo batterista Matt Cameron e a un cantante allora semi-sconosciuto, Eddie Vedder. Fu sempre lui a scrivere la splendida “Say hello to heaven” e a reinterpretare “Man of golden words”, brano-testamento di Wood. E fu ancora lui a “lanciare” Vedder, duettando con lui in “Hunger strike” e portandolo in tour in tutto il mondo. Vedder, Gossard e Ament, insieme al chitarrista Mike McCready, sarebbero quindi diventati i Pearl Jam.

Con la sua voce degna dei più talentuosi cantanti hard rock degli anni '70 (è a quel genere che il filone dei Soundgarden si ispirava), Chris Cornell era la migliore risposta a coloro che sostenevano che il grunge fosse un genere di musica rozzo e tecnicamente trascurato. Impeccabile, complesso, eclettico: la voce di Cornell, attraverso veri e propri inni come “Outshined”, “Black hole sun” e "Fell on black days", si adattava a ogni tonalità ed era in grado di raggiungere picchi altissimi con una potenza impressionante. Ma ciò che era più straordinario era la sua personalità. Gli occhi verdi, lo sguardo malinconico e il profilo da modello bello e dannato. Solo che nel suo caso non era una posa. Chris era bello e dannato nel vero senso del termine. Bello e dannato come la generazione che insieme ad Andrew Wood e poi a Kurt Cobain e Layne Staley (quest'ultimo, leader degli Alice in chains, morto anch'egli di overdose) ha rappresentato, fino alla fine.

E oggi è proprio lui ad andarsene, raggiungendo Andrew, Kurt e Layne e lasciando orfani non solo i suoi compagni, ma tutta quella generazione. Con Chris Cornell ci lascia una parte importante di quello spirito, di quella passione adolescenziale di un gruppo di amici che partito da una città si sarebbe allargato al mondo intero, e che attraverso la musica avrebbe costruito, nonostante le sue maledizioni, uno dei più sontuosi monumenti alla vita. E con lui se ne va una parte di noi, del “nostro gruppo”, quella parte che sarà pure sporca e cattiva, ma che resterà sempre la più bella. Say hello to heaven.

andrea.andrei@ilmessaggero.it


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