Boyhood, dodici anni sul set per cogliere il respiro di un'epoca

Ellar Coltrane all'inizio di Boyhood, quando ha solo 6 anni
​Ci sono film che riescono male perché vengono girati troppo in fretta. In altri invece la lavorazione si dilunga e il regista si perde, o magari sono troppo ambiziosi e i...

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​Ci sono film che riescono male perché vengono girati troppo in fretta. In altri invece la lavorazione si dilunga e il regista si perde, o magari sono troppo ambiziosi e i mezzi non bastano mai. Boyhood è un film a suo modo perfetto che è stato girato in meno di quaranta giorni ed è costato pochissimo, anche se la sua lavorazione si è protratta per circa dodici anni.






Proprio così, dodici anni di riprese segrete, una volta l’anno, durante i quali il piccolo Mason (Ellar Coltrane), che all’inizio è un paffuto bambino, è diventato un ragazzino e poi un (bellissimo) adolescente, con tutte le trasformazioni del caso, fino a partire per il college. Dodici anni in cui non è cambiato solo lui ma i suoi genitori (Patricia Arquette e Ethan Hawke), separati fin dall’inizio e destinati a incontrare altri partner che nel film avranno un ruolo talvolta importante e talvolta no.



Dodici anni durante i quali è cambiata soprattutto l’America, passando dal dopo-11 settembre e dalla guerra in Iraq (in tv si intravede la battaglia di Falluja) alla presidenza di Obama. Anche qui però senza sottolineature e drammatizzazioni, contrariamente a quanto accade nel 99 per cento dei film americani, perché Linklater ha scelto una prospettiva intimista e i grandi eventi ci sono ma sempre sullo sfondo, come la musica delle tante band che ci hanno accompagnato in quesi anni, dagli Arcade Fire ai Coldplay. E anche l’odio del padre per Bush serve a illuminare un momento della crescita di Mason, oltre che a ricordare un passaggio decisivo della storia recente. Mentre il boom di Harry Potter segna la fine dell’infanzia di Mason in una scena che va dritta al cuore, fatta solo di dialoghi padre/figlio e di un timing perfetto all’interno del film.



Che dedica a ogni anno una sequenza, concentrata in poche ore o in una giornata, ma non costruisce un “grande romanzo” come hanno fatto tanti altri scrittori o registi, perché non connette fra loro i tanti personaggi che incrociano il cammino di Mason e della sua famiglia (c’è anche sua sorella Samantha, Lorelei Linklater, figlia e complice del regista). Anzi, molti se li perde proprio per strada, dopo aver loro dedicato magari una sola scena.



Come succede nella vita, specie se tua madre cambia casa (e marito) con una certa frequenza, e senza mai azzeccarci, specie con i mariti. Ma come succede o succedeva nella vita di tutti noi, almeno prima di Facebook (c’è anche una gustosa discussione sulle nostre vite virtuali). Perché inseguendo con grande tatto e finezza quelle che potrebbero sembrare banalità, Linklater riesce a cogliere il cammino misterioso del tempo, il respiro silenzioso di un’intera epoca con una nitidezza e - qualità più insolita - una tenerezza che danno al film il sapore della prima volta.



Molti altri registi, da Truffaut a Reitz (Heimat 2 e 3) allo stesso Linklater (la serie Prima dell’alba) hanno seguito attori e personaggi per anni. Ma in questo mosaico di fatto di dodici microracconti, curiosamente avari di crescendo e scene madri, è proprio il minimalismo di fondo che lentamente, goccia a goccia, ci conquista. Fino a quel bellissimo finale che rovesciando il vecchio carpe diem insinua il dubbio decisivo. Forse Boyhood non è un romanzo e nemmeno una cronaca. È un poema. Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero