Bowie, l'ultimo compleanno insieme a Lazarus, il disco-testamento

Un disco fascinoso e incantato, il compleanno numero 69 e l'addio. Se ne va così il Duca Bianco, il magico David Bowie, gigante del rock che aveva nascosto a tutti di...

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Un disco fascinoso e incantato, il compleanno numero 69 e l'addio. Se ne va così il Duca Bianco, il magico David Bowie, gigante del rock che aveva nascosto a tutti di essere irrimediabilmente malato. E ora si capisce perché quell'ultima testimonianza, Blackstar, sia così scura, forte e, paradossalmente viva, perfetta traduzione in suoni e immagini dello spirito del nostro tempo.

Tutti sapevano che il Duca Bianco aveva problemi al cuore che gli avrebbero impedito di tornare in scena, non che i suoi giorni fossero contati dalla spietatezza di un cancro che in diciotto mesi ha spento lo sguardo (l'essenza dell'ambiguità in quegli occhi dal doppio colore) che ha segnato mezzo secolo di rock. Uno dei protagonisti più originali e instabili, un mago che ancora oggi ha fatto sperare con la sua Stella nera che le vie della musica non siano finite. Qualche giorno fa l'ultima testimonianza, stavolta visiva, uno squarcio sul dramma che stava vivendo, il video di uno dei brani nuovi, un capolavoro spaziale, Lazarus, parte della piéce teatrale off-Broadway, prodotta da Bowie come ideale seguito di L'uomo che cadde sulla terra, dove si fa riprendere su un letto di ospedale cantando: «Guarda qui, sono in cielo» e subito dopo «Non ho più nulla da perdere».

I suoi occhi sono coperti da una benda, il corpo si contorce, la voce è un grido profondo. Un Lazzaro dei nostri tempi che il sipario sull'incubo che sta vivendo. Un'immagine che fa da sigillo sconvolgente a cinquant'anni di storia musicale di un talento geniale, un Picasso del rock, ma non solo del rock (fin da ragazzino aveva vissuto nell'ambiguità del non sapere se fare il cantante di rock o il sassofonista sulle orme di John Coltrane). Una storia vissuta nel segno dell'instabilità, della mutazione, dell'ansia di non fermarsi: «Time may change me, but I can’t trace time» cantava in Changes, nel '71. Muoversi per restare se stesso, pur essendo un trasformista, un dandy, capace di far proprie tutte le incongurenze della modernità.


La più sofisticata delle rockstar, uno dei primi a interpretare il rock come arte globale, parte di un linguaggio che contiene teatro, musical, danza, cinema, fumetto, arti visive. Insomma vestendo la scena rock di un’estetica capace di tenere insieme il peso del passato, decadenza compresa, e l'impegno per il futuro, fornendo gli ingredienti per le mille declinazioni del rock (glam, punk, new wave, dark gothic) e, al tempo stesso, liberandosi dei confini di quel linguaggio come ha fatto ascoltare nel suo ultimo, indimenticabile (lo sarà) capolavoro, Blackstar, uscito nel giorno del suo compleanno, l' 8 scorso, e due giorni prima del suo addio. Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero