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Dopo la vittoria al Sundance e il Golden Globe, è arrivato anche il prestigioso premio britannico Bafta per l’attrice 73enne Yooh Joung-jun, icona del cinema asiatico. Ma è solo l’ultimo dei riconoscimenti che nel mondo intero hanno accolto Minari, il piccolo grande film del sudcoreano-americano Lee Isaac Chung impegnato ora nella sfida più grande: sbancare gli Oscar. Agli Academy Awards, che verranno consegnati domenica 25 aprile (in Italia in diretta su Sky Cinema Oscar), Minari è in corsa con 6 nomination: come miglior film, per l’attore protagonista Steven Yeun, per l’attrice non protagonista Yuh Joung-youn, per la regia, per la colonna sonora, per la sceneggiatura. Il film verrà distribuito nelle sale italiane da Academy Two dal 26 aprile. E andrà in onda in prima assoluta tv il 5 maggio alle 21.15 su Sky Cinema Due.
INCLUSIONE. A un anno dal trionfo di Parasite, l’esplosiva commedia ”nera” di Bong Joon-ho, in questa 93 edizione degli Academy caratterizzata dall’assenza delle major, dall’inclusione e dall’alto numero di donne candidate, Minari possiede molte carte per assicurarsi un ottimo piazzamento: è una produzione indipendente (firmata Brad Pitt), ha per protagonista una minoranza, cioè una famiglia di sudcoreani trapiantati negli Usa, parla del Sogno Americano e dell’importanza delle radici, vede per la prima volta nella storia del premio un attore di origini asiatiche in finale come miglior protagonista e punta su un personaggio femminile di grande spessore, la nonna anticonvenzionale che gioca a carte e dice parolacce interpretata dalla grande Yooh Joung-jun, icona del cinema sudcoreano. Sembra insomma un progetto concepito nel segno dei nuovi standard di inclusione che l’Academy renderà vincolanti dal 2024 ma che già fanno discutere chi non accetta la correttezza politica esasperata e l’introduzione di ”paletti” alla libertà di espressione.
RACCONTO FAMILIARE. Delicato e potente racconto familiare, Minari è un inno al multuculturalismo americano. Racconta la storia autobiografica di Chung, 42 anni, nato a Denver da genitori sudcoreani immigrati negli Usa. I protagonisti del film, moglie e marito che campano facendo i selezionatori di pulcini in base al sesso, si trasferiscono in Arkansas e lottano per creare una propria fattoria. Sullo sfondo conflitti familiari, desiderio di integrazione e soprattutto la voglia di mantenere la propria identità: «Il titolo Minari è una metafora», siega il regista, «si rifà a un tipo di prezzemolo capace di attecchire dove il resto della vegetazione fatica. E’ il simbolo della forza delle nostre radici».
REGISTI ASIATICI. Il razzismo è solo accennato, il film si sofferma piuttosto sull’impegno del capofamiglia nel realizzare il sogno di impiantare una fattoria per coltivare i prodotti tipici della sua terra.
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Il Messaggero