Loretta Rossi Stuart, la sorella di Kim: «Le mie foto hot rubate e finite sul web»

Loretta Rossi Stuart, la sorella di Kim: «Le mie foto hot rubate e finite sul web»
«Avevo trent'anni, due figli da crescere da sola. Quei cinque milioni di vecchie lire per un servizio fotografico di nudo per la rivista Boss mi facevano comodo. Non...

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«Avevo trent'anni, due figli da crescere da sola. Quei cinque milioni di vecchie lire per un servizio fotografico di nudo per la rivista Boss mi facevano comodo. Non immaginavo invece che, 17 anni dopo, quelle foto mi avrebbero fatto rischiare il pignoramento della casa».




Era il 2001 quando Loretta Rossi Stuart, modella e attrice oltre che sorella del più famoso Kim, firmò una liberatoria per alcuni scatti che avrebbero dovuto essere destinati alla visione di poche migliaia di persone. Invece le stesse foto - parecchio tempo dopo - sono finite online e senza alcun consenso da parte dell'interessata, scannerizzate da un privato e pubblicate su Supereva. «Non mi pento delle foto fatte e neanche degli scatti più o meno osè per cui ho posato in tempi più recenti. La mia battaglia è un'altra: noi donne dobbiamo essere libere di decidere come e in quale contesto mostrare il nostro corpo».
 

Loretta parla così perché dopo che le sue foto sono finite online, non solo ha visto lesi i suoi diritti d'immagine, ma si è anche ritrovata condannata in secondo grado dal Tribunale di Firenze al pagamento delle spese processuali per la causa intentata contro la Dada S.p.A, proprietaria e titolare del server su cui le immagini sono state pubblicate. Secondo i giudici fiorentini, infatti, non è stata fornita la benché minima prova della consapevolezza, da parte del gestore, della illiceità delle pubblicazioni operate sullo spazio di Rete.

«Mi sento vittima di una prevaricazione» spiega la Rossi Stuart. Che non ci sta con quanti riducono la faccenda a un semplicistico se non vuoi che le tue foto nuda finiscano sul web, non farle. Così dalle pagine di Leggo lancia un appello a tutte le donne (non solo del mondo dello spettacolo): «Uniamoci in una class action e rivendichiamo il diritto a disporre liberamente del nostro corpo e della sua rappresentazione».

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Il Messaggero