Parkinson, lo smartwatch anticipa di 7 anni la diagnosi (molto prima della comparsa dei sintomi): lo studio che accende la speranza

Gli orologi “intelligenti” possono svelare tracce della malattia molto prima della comparsa dei sintomi. Dai vaccini in via di sperimentazione agli anticorpi monoclonali, le forme innovative di terapia

Parkinson, lo smartwatch anticipa di 7 anni la diagnosi (molto prima della comparsa dei sintomi): lo studio che accende la speranza
Lo smartwatch potrebbe svelare “tracce” di malattia di Parkinson fino a 7 anni prima la comparsa dei sintomi. Ascolta: Il meglio dall'estate: bastano sei...

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Lo smartwatch potrebbe svelare “tracce” di malattia di Parkinson fino a 7 anni prima la comparsa dei sintomi.

È il risultato di uno studio molto importante, pubblicato su Nature Medicine firmato dai ricercatori dell’Istituto inglese per la Ricerca sulla Demenza (UKDRI) e del Mental Health Innovation Institute (NMHII) dell’Università di Cardiff, che apre, sul grande pubblico, a possibilità inedite di diagnosi precoce, arma vincente per il successo della terapia nel Parkinson, come in qualsiasi altra malattia. I ricercatori hanno registrato con uno smartwatch la velocità dei movimenti dei partecipanti per una settimana; questi dati sono stati quindi analizzati da un programma di intelligenza artificiale che è stato in grado di predire con accuratezza chi, tra i partecipanti allo studio, sarebbe andato incontro alla malattia, anche a distanza di molti anni.

IL DECORSO

La malattia di Parkinson (guai a chiamarla ancora “morbo”, termine del nostro passato remoto linguistico, gravato da un carico di stigma, come ricorda la campagna #NonChiamatemiMorbo della Confederazione Parkinson Italia) è una patologia neurodegenerativa caratterizzata da un decorso lento e progressivo, legato alla distruzione di alcune cellule specializzate del cervello, produttrici di dopamina e situate nella “sostanza nera”. È caratterizzata da disturbi del movimento (tremore, rigidità, lentezza, instabilità posturale) e dell’equilibrio; ma spesso sono presenti anche sintomi non motori (ansia, depressione, disturbi del sonno) e cognitivi. Le cause della malattia non sono del tutto focalizzate e si ritiene che possa derivare da una concomitanza di predisposizione genetica, fattori ambientali e invecchiamento. Da almeno trent’anni a questa parte, la terapia è affidata alla somministrazione di farmaci sintomatici (la cosiddetta terapia “dopaminergica”, come la levo-dopa, agonisti della dopamina, amantadina, MAO B inibitori) che non curano la malattia e possono anzi determinare a distanza di tempo una serie di complicanze, come le cosiddette “discinesie” (fluttuazioni motorie e movimenti involontari incontrollati). In molti casi è necessario inoltre ricorrere a trattamenti per i cosiddetti sintomi non motori (depressione, insonnia, problemi di memoria, tra gli altri). E d’altronde, nel corso degli anni si è scoperto che il Parkinson non è solo una malattia da deplezione di dopamina; altre regioni del cervello possono essere interessate da una perdita di cellule e da squilibri biochimici. È molto sentita dunque la necessità e l’urgenza di sviluppare nuovi trattamenti in grado di rispondere alle necessità dei pazienti. Qualcosa finalmente si sta muovendo ma perché i nuovi trattamenti abbiano maggiori chance di successo, è necessario somministrarli all’inizio della malattia. E questo riporta all’importanza della diagnosi precoce e alla messa a punto di nuovi strumenti diagnostici, come dei biomarcatori specifici di questa malattia, da ricercare idealmente attraverso un esame del sangue e da richiedere magari sulla base dell’alert lanciato da un orologio “intelligente”. Si stima infatti che al momento della diagnosi, i pazienti abbiano perso già il 50-80% del loro corredo di neuroni dopaminergici. Grandi speranze sono al momento appuntate, sia sul versante della diagnosi, che su quelle del trattamento, sull’alfa-sinucleina, una proteina “tossica” che, accumulandosi nel cervello, può scatenare il richiamo di cellule dell’infiammazione che vanno a distruggere le preziose cellule nervose. Per questo, l’alfa-sinucleina, oltre a fungere da biomarcatore di fase precoce (si può misurare sia nel liquor, che nel sangue), rappresenta anche un potenziale obiettivo terapeutico. Altri potenziali biomarcatori appena individuati sono i prodotti di due geni (PLOD3 e LRRN3) iperespressi nel sangue dei pazienti già in fase iniziale di malattia. La terapia chirurgica del Parkinson può essere di grande aiuto soprattutto nelle forme più avanzate di malattia o quando i farmaci non danno gli effetti attesi. I pazienti di età inferiore ai 65 anni, con tremori invalidanti e resistenti alla terapia medica o con gravi fluttuazioni motorie e discinesie (effetto indesiderato della terapia dopaminergica), possono trarre beneficio dalla cosiddetta “stimolazione cerebrale profonda” (Deep Brain Stimulation, DBS). Il neurochirurgo, guidato da uno speciale neuronavigatore di sala operatoria, impianta un microelettrodo nelle profondità nel cervello (nuclei della base), collegandolo poi ad un generatore, simile a quello di un pacemaker, alloggiato in una tasca cutanea a livello del torace. I pazienti hanno un miglioramento dei sintomi motori e possono ridurre la terapia farmacologica.

NUOVE FRONTIERE

E intanto, proseguono le ricerche su forme innovative di terapia, dagli anticorpi monoclonali contro l’alfa-sinucleina, ai “vaccini contro il Parkinson, alla terapia cellulare con trapianto di cellule staminali, riservata alle forme più avanzate di malattia. Il vaccino UB-312, in fase molto precoce di sperimentazione (fase 1), stimola la produzione di anticorpi contro l’alfa-sinucleina, gli accumuli tossici della quale sono alla base del Parkinson. La Fondazione Michael J. Fox (il famoso attore americano-canadese, protagonista del film Ritorno al Futuro, affetto da Parkinson dall’età di 29 anni) ha da poco annunciato che finanzierà un progetto con questo vaccino in collaborazione con la Mayo Clinic e l’Università del Texas di Houston. Un’altra linea di ricerca, portata avanti dall’Università di Oxford si basa sulle ubiquitine, piccole proteine che segnalano alle “cellule spazzino” dell’organismo quali sono le proteine da rimuovere; nel caso del Parkinson la proteina da rottamare è ancora una volta l’alfa-sinucleina.

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Il Messaggero