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Secondo la Federazione Italiana medici pediatri (Fimp) negli ultimi due anni i casi di tentato suicidio tra i ragazzi sono aumentati del 75 per cento. Sono circa 100mila, poi, i cosiddetti hikikomori, cioè giovanissimi che scelgono di rimanere gran parte della giornata chiusi nelle loro camerette. Ma una strada per aiutarli è possibile, ed è alla portata di tutti: “Se i ragazzi si sentono ascoltati e non giudicati – spiega Michele Ribolsi, responsabile del servizio di psichiatria del Campus Bio-Medico di Roma – in genere escono dall’isolamento”.
Se gli adolescenti stanno così tanto male dal punto è tutta colpa del lockdown?
“Intanto bisogna ricordare che c’è un’onda lunga. Nell’ultimo ventennio, infatti, i numeri sono cresciuti, anche prima della pandemia. Sicuramente, negli ultimi due anni i casi sono aumentati ulteriormente. L’allentamento dei legami sociali imposto dalle regole pandemiche ha comportato infatti una maggiore percezione di solitudine da parte dei ragazzi e una maggiore difficoltà a stabilire relazioni con i pari. Le misure di lockdown, quindi di restrizione, hanno evidentemente comportato un incremento dell’utilizzo di social media e di rapporti virtuali”.
Ma c’era già una fragilità latente?
“Certamente. È noto infatti che il suicidio è la seconda causa di morte negli adolescenti, già prima della pandemia. Sappiamo poi che le fragilità nascono soprattutto all’interno dei quella categoria che ormai stiamo identificando come “soggetti a rischio”, cioè pazienti che non hanno sviluppato sintomi psichiatrici evidenti.
Il problema delle sostanze stupefacenti è sempre stato un fattore di rischio.
“Certo, le sostanze stupefacenti ci sono sempre state, ma è anche vero che i riferimenti culturali e ideologici che c'erano in passato oggi sono del tutto assenti. Ormai viviamo in un contesto di ricerca pura del godimento, dell’eccesso, ma non c’è più quel connotato culturale e simbolico del passato, che molto spesso ricopriva questi comportamenti e magari li orientava. Nella società attuale questa dimensione si è persa completamente; fermo restando che la pandemia sicuramente ha dato un grosso contributo all’aumento dei disturbi psichici, perché evidentemente ha frammentato le già deboli relazioni sociali preesistenti”.
Non dipende quindi dalla famiglia?
“È chiaro che le famiglie sono immerse in un contesto sociale più ampio. Si pensi alle cosiddette determinanti psico-sociali, per esempio alla povertà educativa, che è maggiormente presente in alcune aree geografiche e in determinate aree urbane; in quei contesti viene meno quella protezione che può essere data dal fatto che c’è una cornice culturale che in qualche modo ci protegge. Non dimentichiamo che l’idea di appartenere o di aderire a punti identificativi precisi ha un significato protettivo. Oggi questi riferimenti spesso mancano”.
Quanto incidono i social network?
“Inevitabilmente consentono una maggiore facilità di isolamento che prima non esisteva; laddove c’è una tendenza al ritiro sociale, ci si rifugia nelle connessioni virtuali. È una strada facilitata che può peggiorare questo livello di emarginazione e di ritiro. Naturalmente è una strada più comoda rispetto al rapporto con l’altro, che è sempre stato una grande fonte di crisi e di angoscia, ma anche di ricchezza. Questa condizione viene meno e viene sostituita nel virtuale, dove evidentemente tutto ha una connotazione diversa, più semplice, per certi aspetti più protetta, visto che non c’è rapporto col corpo”.
Come si possono aiutare questi ragazzi?
“L’unica possibilità che abbiamo è quella di offrire loro strumenti di ascolto. I ragazzi che vengono nei nostri ambulatori ci raccontano di sentirsi giudicati continuamente e di vivere in un contesto valutativo costante. Se lasciamo per esempio che la scuola abbia soltanto valore di pura valutazione del merito e non anche di orientamento rispetto a quelli che sono i riferimenti da costruire, questi ragazzi li perdiamo”.
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