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Sempre più ore di luce nella giornata e temperature in salita. Una combinazione favorevole per fermare la diffusione del virus. Non perché il caldo abbia il potere di contrastarlo ma perché, in estate, cambiano le nostre abitudini. Si vive di più all’aria aperta e si riducono gli assembramenti (discoteche superaffollate a parte). Lo scorso anno c’è stato un decremento delle infezioni poi riprese per effetto di un preoccupante allentamento di ogni forma di protezione. «Siamo relativamente ottimisti. Non perché il Sars-CoV-2 soffra il caldo – spiega Gianni Rezza, direttore generale della Prevenzione del ministero della Salute – ma essendo un virus respiratorio durante la stagione estiva c’è un naturale distanziamento sociale. Aumentando anche la proporzione delle persone che si vaccinano cominciando a vaccinare anche i giovani, dovremmo dare una botta ancora maggiore a questa epidemia». In estate è la minore umidità il parametro che gioca il ruolo maggiore, non il calore in sé. Come dimostrano le condizioni dell’India dove, nonostante le temperature elevate, il virus circola attraverso i contatti. Quindi, anche se il termometro segna 40 gradi, mantenere le distanze, mani disinfettate e mascherina.
GLI STUDI
La luce, e non il caldo appunto, potrebbe essere nostro alleato in estate. Come si legge in uno studio condotto dall’Università di Edimburgo e appena pubblicato sul British Journal of Dermatology. Secondo i ricercatori una maggiore esposizione ai raggi solari (UV) potrebbe rappresentare un intervento di sanità pubblica. Nella ricerca sono stati confrontati i decessi registrati per Covid-19 negli Stati Uniti da gennaio ad aprile 2020 con i livelli di UV di 2.474 contee nello stesso periodo di tempo. I dati mostrano che le persone che vivono in aree con il più alto livello di esposizione ai raggi UV avevano un rischio inferiore di morire a causa del Covid-19 rispetto ai residenti con minore esposizione ai raggi Uva. L’analisi è stata ripetuta in Inghilterra e in Italia e ha portato agli stessi risultati. I ricercatori hanno anche preso in considerazione molte variabili – età, etnia, status socioeconomico, densità di popolazione, inquinamento atmosferico, temperatura e livelli di infezione nelle aree locali – e non hanno trovato alcuna influenza. Per gli studiosi, la riduzione osservata del rischio di morte da Covid-19 non può essere giustificata neanche da livelli più elevati di vitamina D.
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