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Tira una brutta aria e non va per niente bene. Due episodi, distinti e però con elementi comuni, riportano l’attenzione sugli assalti a sfondo antagonista, sia politico sia sportivo. Data alle fiamme la corona d’alloro in ricordo di Paolo Di Nella, militante del Fronte della Gioventù, morto il 9 febbraio 1983, pestato a sangue da un commando dell’ultrasinistra. E ancora: ultras in battaglia sul fronte del calcio violento. Imbrattata di giallo e rosso la targa dedicata a Umberto Lenzini, presidente del primo scudetto conquistato dalla Lazio. Su tutto, immediate, le reazioni: «Atto vile», dicono dal Campidoglio.
Imbrattare aggirandosi col cappuccio è in effetti un gesto vigliacco oltre che stupido. Vuole essere un insulto affidato a una secchiata di colore, un oltraggio alle idee altrui, un segno di disprezzo verso il prossimo. È questa una pratica che a ondate, ciclicamente, rivela l’esplodere di un odio di fazione latente, velleitario e malmostoso.
Bisogna riflettere sul significato di queste incursioni piratesche perché, è fatale, innescano circuiti perversi di ritorsioni infinite, destinate a intensificarsi e incattivirsi. I muri ormai, accanto alle esibizioni grafiche dei writer professionali e inguaribili, grondano di segnali rancorosi: diventano lo specchio di tensioni irrisolte e latenti, di violenze sopite che mostrano contrapposizioni pericolose. Non importa se è il calcio delle curve facinorose o la sponda politica a promuovere gli attacchi. Il fatto è che ci raccontano una voglia di odiare. Una malattia da curare con terapie d’urto.
graldi@hotmail.com
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