Com'è difficile essere ciò che vorremmo essere

Com'è difficile essere ciò che vorremmo essere
A questo punto c'è da chiedersi, e Seneca se lo chiede spesso, quale sia il compito o, piuttosto, la missione del sapiente? La risposta è facile: vincolare il...

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A questo punto c'è da chiedersi, e Seneca se lo chiede spesso, quale sia il compito o, piuttosto, la missione del sapiente? La risposta è facile: vincolare il principe al suo impegno, evitare che si perverta (della sua infallibilità il filosofo è tutt'altro che convinto perché anche il sovrano è agitato e fuorviato dalle passioni). Bisogna riconoscere che Seneca, all'inizio, riuscì a dirigere bene l'ex allievo. Solo quando questi cadde sotto l'influsso di compagnie dissolute, il suo ascendente venne meno. E, con esso, il suo potere.


Se, e quanto lo rimpianse, dopo averlo esercitato con tanta discreta ampiezza, lo ignoriamo. Esso non fu tutto rosa e fiori, non gli logorò solo il fisico, già minato dall'asma e da un'Iliade di altri malanni, ma gli torturò anche lo spirito, gli tormentò la coscienza. L'avallo del matricidio, gesto dettato più da legittima difesa che da crudeltà, certamente lo turbò. Ma come poteva, dato il suo ufficio, sottrarsi a una complicità così scellerata?
Solo quando abbandonerà la scena politica per ritirarsi a vita privata, quei rimorsi e quelle amarezze svaniranno o, comunque, si attenueranno.

Nemmeno un giorno trascorso nell'ozio scrive Seneca all'amico Lucilio - rivendicando allo studio parte della notte. Non mi concedo al sonno ma vi soccombo; e costringo al lavoro gli occhi miei che si chiudono, stanchi per la veglia. Mi sono allontanato dagli uomini e dagli affari, in primo luogo dai miei affari. Penso ai posteri e per essi scrivo qualcosa che possa giovargli. Ammonimenti salutari come ricette di medicine utili, affido alle mie lettere dopo aver sperimentato sulle mie piaghe la loro efficacia.
Le mie piaghe, anche se non guarite del tutto hanno smesso di diffondersi subdolamente. La retta via, che tardi e stanco d'errare ho conosciuto, mostro agli altri.

Grido: Evitate tutto ciò che piace al volgo, tutto ciò che dona il Caso. Se questo dico fra me e me, se questo dico ai posteri, non ti sembra che faccia cosa più utile, se richiestone, mi presentassi in giudizio come avvocato o imprimessi il mio sigillo sulle tavole di un testamento o se in Senato appoggiassi con la parola o il gesto un candidato? Credimi: quelli che sembrano non fare niente, fanno cose più importanti, trattano contemporaneamente le cose umane e divine.
Anche stavolta la predica era buona, il pulpito un po' meno.
Invaso dalla foga moralistica e dal pathos sermoneggiante, Seneca dimenticava quei precetti, d'averli spesso evasi. Dimenticava le enormi ricchezze accumulate con l'usura, il lusso di cui s'era circondato, e ancora si circondava, il numero di schiavi a suo servizio. Personalmente era frugale, mangiava poco, beveva meno, dormiva su un ruvido pagliericcio, s'accontentava del minimo indispensabile. Ma agli occhi del volgo, e non solo del volgo, ciò non bastava.

«In realtà scrive Durant non seppe mai decidersi se amasse la filosofia o il potere, la sapienza o il piacere. Ne mai si convinse della loro incompatibilità».

Ma ciò nulla toglie alla grandezza del suo messaggio filosofico, un messaggio, le Epistole morali a Lucilio, l'opera più bella uscita dalla penna di questo inimitabile, inquieto, contraddittorio pedagogo dello spirito. Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero