Una passione medievale (1)

Una passione medievale (1)
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Caro Gervaso, lei ha raccontato tante volte l'immenso, tragico amore di Eloisa e Abelardo. Sto partendo per le vacanze al mare con mia moglie e mi piacerebbe che lei rinverdisse con la sua penna, questa love-story. La leggeremo ad alta voce, d'un fiato, sulla sdraio. Carlo e Federica, Ancona.


Eloisa e Abelardo: forse i più celebri e disperati amanti del Medioevo. Una coppia unica nella gioia e nel dolore, nell'estasi e nel tormento. Lei la perla di Francia; lui il fiore all'occhiello dell'intelligencia d'Oltralpe. Lei diciottenne, nata a Parigi nel 1101. Lui quarantenne, venuto alla luce a Pallet nel 1079. Lei, dolce e delicata. Lui, un'arca di scienza e un titano del pensiero. Lei casta e ingenua. Lui, brillante e cosmopolita. Lei, allieva modello. Lui dottore, teologo, filosofo, amato e odiato, osannato ed esecrato, conteso dalle università, dalle accademie, dai salotti, dalle corti del Vecchio Continente.

Lo zio di Eloisa, Fulberto, era canonico della cattedrale parigina. Uomo austero e laconico, diffidente e bigotto, schivo e geloso, impulsivo e vendicativo, viveva per la nipote e per la Chiesa. La felicità di Eloisa era la sua felicità. L'ascendente che su di lei esercitava era assoluto, totale. E reciproca la devozione. Un'osmosi affettiva che non ammetteva cedimenti, ripensamenti, turbamenti, soprattutto sentimentali, i più ambigui e ingannevoli. Un microcosmo, quello di Fulberto, un guscio dorato, una nicchia spirituale, inviolabile e insondabile da chi non ne godeva l'intimità e ne ignorava gli arcani. Abelardo sfidò questi e quelli e ne pagò un prezzo disonorante e cruento.
Fatale fu l'incontro con Eloisa. Due anime profonde, due nature eccessive, votate alla beatitudine e alla perdizione, al trionfo dei sensi e al loro naufragio.

S'incontrarono, si guardarono, e l'attrazione fu immediata e irresistibile, furtiva e lasciva, ai limiti dell'estrema lussuria. La lontananza sofferta come un castigo, come un sopruso, come un atto di sadismo. Perché negare a due temerari seguaci di Cupido di farsi trafiggere dai suoi dardi e di assaporarne le soavi offese, crogiolandovisi, fino all'estenuazione?
La vicinanza era essenziale, presupposto di ogni appagamento, premessa di ogni abbandono. Ma come trasformare una conoscenza in una consuetudine, in una frequentazione assidua, in un fandango di sospiri e languori, di carezze e baci?

Al filosofo viene un'idea: farsi prendere a dozzina dal canonico. Non solo avrebbe pagato la retta, ma anche impartito lezioni gratuite all'allievo fisicamente tutt'altro che brutta e, in quanto a sapienza, suprema.

In un esempio di sincerità confesserà: Viste in lei tutte queste doti, pensai di unirla a me con un amore che mi sembrava molto adatto alle mie esigenze. E, in un soprassalto di superbia: In quei tempi primeggiavo talmente, per essere nel pieno della bellezza e della giovinezza, che nessuna donna che mi fossi degnato di amare, mi avrebbe detto di no. Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero