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Smettetela di chiamarlo smart working, vi prego. Trasformare il tavolo della cucina in una scrivania improvvisata, ripassare le coniugazioni dei verbi nel mezzo di una conference call, mandare una mail al cliente mentre tuo figlio ti chiede le divisioni in colonna, non è smart working. Se proprio vi piace l’inglese chiamiamolo STARTworking, perché sai quando inizi, ma non quando finisci. Oppure HARDworking e non serve spiegare il perché. Lo sanno bene tutte quelle mamme con bimbi piccoli (perché, diciamoci la verità, il lavoro extra ricade spesso solo su di loro) che dopo un anno si ritrovano a dover rivivere l’incubo della Dad. Con la cucina trasformata in un’aula di prima elementare, la camera da letto nella classe di storia, il soggiorno in quella di matematica. «Mamma non mi funziona il link», «mi stampi il disegno?», «facciamo un puzzle?».
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Lo sa bene Giorgia che sui social ha lanciato il contest “mamme in smart working” “andràtuttobenemaquando?”. Perchè stavolta non è affatto come l’anno scorso. Anche in zona rossa si lavora, i parchi sono aperti, il mondo non si è fermato: si sono fermate le scuole. Di nuovo. E quello che fanno queste mamme è DARKworking perché l’unica luce che vedono è quella che lasciano accesa di notte per recuperare il lavoro che non sono riuscite a fare di giorno. E di smart c’è davvero poco.
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Il Messaggero