Décolleté prosperosi a spese del Servizio sanitario. Bastava scrivere in cartella clinica che si doveva ricorrere ai bisturi per un carcinoma mammario. Ma anche...
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A partire da Paolo Palombo, direttore dell’Unità Operativa Complessa di Chirurgia Plastica e Ricostruttiva dell’ospedale, un luminare nel suo settore, pronto a entrare in sala operatoria anche in casi in cui non c’erano tracce di ustioni o patologie oncologiche, le uniche che potessero giustificare interventi ricostruttivi nel suo reparto. Tra le diagnosi sospette gli inquirenti hanno scoperto una mastoplastica per avere un seno più voluminoso coperta dalla diagnosi di «tumore maligno alla mammella».
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«L’anamnesi» era quella «di tumore maligno della mammella», ricostruisce nell’imputazione il pm Carlo Villani. «Un intervento effettuato per ragioni di natura estetica e non terapeutica», che non sarebbe potuto «ricadere automaticamente sotto la copertura del servizio sanitario nazionale, e quindi a prestazione gratis o col pagamento del solo ticket». Non l’unica però. Il rimodellamento del ventre di una paziente in forma, ossia una addominoplatica, è stata giustificata in cartella clinica con tre diagnosi diverse: «ernia epigastrica» all’ingresso; «ernia ombelicale» con gangrena al momento dell’intervento e di «laparocele non specificato senza menzione di ostruzione o gangrena» al momento delle dimissioni. Gli altri chirurghi, invece, si sarebbero prestati a entrare in sala operatoria o a inserire dati falsificati per permettere le operazioni di chirurgia estetica. Come una mammoplastica riduttiva bilaterale su una giovane donna giustificata con la diagnosi di ingresso di ginecomastia (accrescimento dell’apparato mammario, in genere su uomini) e di uscita di ipertrofia del seno.
Ma anche casi di blefarocalasi bilaterali con intervento su palpebre superiori e inferiori, o correzioni di mammelle con volumi diversi. Per la procura i medici avrebbero compiuto così anche un abuso d’ufficio procurando un «vantaggio patrimoniale» ai pazienti prescelti. Ma anche il reato di peculato per avere utilizzato «pinze, porta aghi, bisturi, anestetici, garze, tamponi, disinfettanti, e nonché l’energia elettrica utilizzata per il funzionamento delle apparecchiature della sala operatoria». La procura nelle contestazioni, per giustificare la serie di abusi, ha fatto riferimento anche alla Costituzione, e precisamente all’articolo 97 nel punto in cui impone imparzialità della pubblica amministrazione, col divieto di preferenze e discriminazioni. Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero