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Il fioraio ambulante del Gianicolense (ambulante solo per status burocratico, in realtà il suo banchetto sta fisso qui, un punto di riferimento per il quartiere come il bar, l'edicola e la farmacia) oggi ha dovuto rinunciare al suo tettuccio di tela. «Con il vento che c’è, se lo mettevo volavo fino a viale Trastevere» dice mentre confeziona un mazzo di roselline. Per lui, come per tutti i suoi colleghi, non è una domenica qualsiasi: è San Valentino, giornata che dovrebbe garantire una discreta porzione del fatturato annuo. Mai come questa volta i fiorai avevano bisogno del 14 febbraio per recuperare un po’ d’ossigeno dopo un anno di affari grami. «E invece ci arriva questa giornata di vento e di gelo, con la gente che scappa via» dice Antonio, più rassegnato che lamentoso, anche perché con chi ti vuoi lamentare se fa freddo, l’unico con cui prendersela è il virus. Infatti la conversazione passa ai temi della pandemia e il discorso del fioraio - mentre le raffiche di burian sconquassano i ciclamini - assume un tono più aggressivo: «È un macello, nessuno ci sta più attento, in banca la gente si toglie la mascherina in mezzo a tutti». Antonio pronuncia la sua invettiva contro l’imprudenza altrui, ma intanto ha il naso scoperto, la mascherina è appoggiata all’altezza delle labbra. Una mascherina lisa, sfilacciata, pressoché inutile, consumata da chissà quante giornate trascorse all’aperto, tra gli agenti atmosferici. Una mascherina che ha sofferto, e che aspetta il giorno in cui potrà riposarsi, come tutti noi.
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Il Messaggero