Minacce e violenza come prassi, intimidazioni, armi e, soprattutto, un clima di omertà e timore: sono i tratti distintivi del clan guidato da don Carmine Fasciani, che per...
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APPELLO BIS
Ci sarà quindi un processo d'appello bis, per riesaminare l'impianto accusatorio sostenuto dalla pm Ilaria Calò che, nel luglio 2013, aveva portato in carcere 51 persone. Un impianto fondato proprio sul «carattere mafioso» del sodalizio. I giudici d'appello avevano sostenuto che Carmine Fasciani e la moglie Silvia Bartoli fossero a capo «di un gruppo organizzato finalizzato alla commissione di reati di usura, estorsione, traffico di stupefacenti, detenzione e porto di armi e acquisto di attività economiche in modo occulto». Parlavano anche di «prassi consolidata di intimidazione e violenza». Nonostante questo, non avevano riconosciuto il carattere mafioso del gruppo, perché mancava, a loro dire, la prova «della pervasività dell'associazione criminosa e del suo potere coercitivo». Un passaggio smontato ora dalla Cassazione, che fa rientrare il clan nella sfera delle «piccole mafie», che sfruttano «la forza intimidatrice» per minacciare «tanto la vita o l'incolumità personale, quanto le condizioni esistenziali, economiche o lavorative di specifiche categorie». Per i giudici, «il disconoscimento del carattere mafioso è contraddittorio», anche perché il clan ha agito in un «contesto in cui è chiaramente riconosciuta l'efficace garanzia data da Carmine Fasciani - con la sua indiscussa fama criminale - circa il rispetto del gruppo a lui facente capo sul territorio».
«L'importante pronuncia della Cassazione sancisce un principio di diritto fondamentale, destinato a trovare applicazione anche in altri processi di mafia», ha dichiarato l'avvocato Giulio Vasaturo, legale dell'associazione Libera costituitasi parte civile nel processo. Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero