Omicidio al Divino Amore: «Mi hai rubato in casa» e spara al vicino

Giovanni Nesci
«C’è Fabio? Che scende?». Lo ha attirato nel vialetto che porta verso l’uscita e freddato con almeno quattro colpi al petto davanti al cancello in...

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«C’è Fabio? Che scende?». Lo ha attirato nel vialetto che porta verso l’uscita e freddato con almeno quattro colpi al petto davanti al cancello in via Sparanise 64, a Castel di Leva. Così è morto ieri mattina alle 10,30 un padre di famiglia, Fabio Catapano, 48 anni, conosciuto da tutti finora solo per la sua generosità, ingenuità, altruismo: ucciso da Giovanni Nesci, il 22 enne di Sorianello che aveva accudito come uno dei suoi tanti figli.


Roma, uomo ucciso in strada a colpi di pistola: confessa il vicino


Da quando, un po’ di mesi fa, prima del lockdown era arrivato a Roma dalla Calabria, occupando una villetta davanti con un gruppo di amici, in un piccolo comprensorio dove tutti si conoscono. Nesci si sarebbe poco dopo presentato nella caserma dei carabinieri del Divino Amore confessando di aver premuto il grilletto per una vicenda passionale a cui i militari non credono e consegnando una pistola di piccolo calibro.

«Lo ho ammazzato io, pensava avessi una storia con la compagna», ha ripetuto il ragazzo al magistrato. Alcuni testimoni inoltre avrebbero visto una macchina con tre persone a bordo assistere alla sparatoria. Una ricostruzione inverosimile, quella della gelosia, a cui gli investigatori non danno importanza. A sentire parenti, amici e vicini qualcosa era cambiato da martedì scorso. Nesci e uno dei coinquilini, Ottavio, avevano cenato con la famiglia di Catapano, mentre gli altri due erano fuori Roma. «Abbiamo comprato il pesce», aveva detto proprio Nesci, «veniamo da voi». Erano stati assieme fino all’una ma il giovane durante la sera si sarebbe allontanato. Rientrato a casa avrebbe scoperto di esser stato derubato, soltanto lui, nella casa a più piani, «mi hanno rubato tutto», ripeteva genericamente. «Fabio lo aveva anche aiutato a cercare, telecamere in zona, erano stati in giro notte e giorno» ricorda la compagna, che non si dà pace: «Era come un figlio, ha l’età di mio figlio, ci aveva pitturato le pareti di casa, perché fa l’imbianchino, sotto il lockdowund abbiamo giocato tutti a risiko e mangiato torte...». Ma Nesci insisteva: «Te sai qualcosa», minaccioso, tutti cominciavano a preoccuparsi. A qualcuno sfugge: «Certa gente non doveva arrivare qui».

«STAVA SEMPRE CON NOI»
In caserma anche Ottavio, uno dei coinquilini di Giovanni, come lui calabrese e poco più che ventenne al momento semplicemente ascoltato come persona informata dei fatti. Fuori dalla caserma due donne si stringono forte, la compagna Monica e la figlia adolescente. Ricorda la ragazza: «Papà non stava mai a casa, perché stava sempre ad aiutare qualcuno».

E la compagna: «Li abbiamo accolti amorevolmente, Giovanni e gli altri tre quattro amici calabresi con i quali era venuto a vivere dietro casa nostra. Erano sempre da me e Fabio, stavano con i nostri figli. Facevo per loro le ciambelle e ora Giovanni ha detto ai carabinieri di aver ammazzato mio marito. Così, a sangue freddo. Ecco il ringraziamento. Ma per me stava fuori, era spaventato. Non era drogato, ma aveva gli occhi rossissimi ed era terrorizzato per qualcosa».

Ora è in arresto per omicidio volontario, «non ho sentito i colpi mi ha avvertito un vicino dieci minuti dopo - ancora Monica - l’ho trovato appoggiato al muro, senza vita, non perdeva sangue ma l’ho scosso e ho visto tre fori sul petto e una pallottola rimasta incastrata sulla spalla». Fabio Catapano, prima della crisi noleggiava auto ora era disoccupato. Monica è già vedova, ora teme per la sua vita «vivo con il reddito di cittadinanza, dove vado?» Madre di cinque figli, il sesto della vittima con la quale stava da sette anni, è stordita, disorientata. «Non so che devo fare, se lasciare casa, l’ho comprata all’asta a 90mila euro, lasciarla sarebbe un ulteriore trauma per i miei figli, quattro ancora minorenni».


Ora la casa davanti è sigillata. Chiusa con un nastro, i vicini raccolgono i guanti lasciati da chi è intervenuto sul luogo del delitto, si fanno coraggio tra loro. Da giorni qualcosa era cambiato e tutti se ne erano accorti, «accusavano mio marito di un furto fatto in casa loro. Ma Fabio non c’entrava nulla, io lo so». Un furto di cosa non è ancora chiaro. Troppo ancora va ricostruito, troppi misteri, dietro questa morte: un uomo ucciso come un boss, l’assassino che corre a consegnarsi (forse per crearsi un alibi e uscire da un incidente scomodo?), la storia della gelosia, la consegna della pistola. Nell’aria dolore e paura. A Castel di Leva parlano tutti a bassa voce.
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Il Messaggero