Tutti, o quasi, parlano cinque minuti a testa. Lui quaranta. Parte specificando che «questo è il mio partito» e alla fine chiude con un intervento de sinistra...
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Non si sa dunque se Marino sia l’ospite o il padrone di casa, più la seconda che la prima nel dubbio, di questo partito con cui va avanti a forza di strappi, di paci subito tradite da tensioni e di nuovo avvicinamenti.
Odi et amo. Il sindaco lo sa e si diverte a giocare tra appartenenza («Io sono un nativo democratico») e diversità («Io sono il cambiamento»). E lo dice anche nei confronti dei suoi predecessori, Francesco Rutelli e Walter Veltroni, che «hanno fatto bene per Roma, ma in un altro contesto».
Eccolo, Ignazio Marino. Il marziano che rivendica il cambio di passo in Campidoglio sottolineando ancora una volta che da quando c’è lui la musica è cambiata ed ecco perché avrebbe pestato i piedi a qualche potentato. Non parla della Panda rossa e nemmeno del rimpasto di giunta, fa un discorso programmatico sul «già fatto» e le sfide future. Non nomina mai Renzi, nemmeno per sbaglio. Al Pd romano l'amara constatazione: nel bene o nel male dovremo tenercelo ancora per molto. Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero