Roma, Marco Bellocchio racconta la "grande" storia e arriva Fabrizio Gifuni

Applausi e parterre di ospiti al Cinema Troisi dove il regista ha presentato il suo documentario su "Marx"

Roma, Marco Bellocchio racconta la "grande" storia e arriva Fabrizio Gifuni
«Questo film è una delle cose più belle che ho visto». Fabrizio Gifuni è un fiume in piena nel commentare a caldo la visione del documentario...

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«Questo film è una delle cose più belle che ho visto». Fabrizio Gifuni è un fiume in piena nel commentare a caldo la visione del documentario “Marx può aspettare”, firmato dal regista Marco Bellocchio, che gli siede accanto. Il cinema Troisi, malgrado sia domenica mattina, è gremitissimo. Con loro, introdotti da Valerio Carocci, c’è anche la montatrice dell’opera, e compagna dell'autore, Francesca Calvelli. In platea siede la figlia del cineasta: Elena. Tra il pubblico è palpabile l’emozione.

Perché l’opera appena proiettata parla di Camillo, il fratello gemello di Bellocchio che muore suicida nel 1968. Quasi cinquanta anni dopo, il regista riunisce tutta la famiglia per un pranzo. Parlando con ognuno di loro ricostruisce i tasselli del passato dando finalmente corpo a un fantasma con cui ha fatto i conti per tutta la vita. «È un film senza sceneggiatura – spiega Bellocchio - mi resi subito conto che il protagonista doveva essere il mio fratello e che dovevo stare di fronte alla macchina da presa. È stato salutare per il mio lavoro e la mia vita. Ho compreso la mia mancanza di sensibilità di allora. Non avevamo capito quanto Camillo stesse male». «Esiste la possibilità di trasformare le ferite in bellezza: quanto è difficile il passaggio?».

Chiede Gifuni. «È stata un’elaborazione unica. Capita una sola volta», replica il regista. «Mi ha impressionato il coraggio di tirare fuori la storia», commenta la Calvelli. E arrivano le domande del pubblico. «Nel ‘68 la politica era distanziata dai sentimenti, non doveva essere invasa dal privato», sottolinea una signora. «Anche io ero in pieno ‘68 – replica Bellocchio - ma non è stata la politica la causa. Io mi ero allontanato dall’infelicità familiare. Sentivo che questo racconto poteva avere una sua originalità. Se si riuscisse a guarire la malattia mentale, nel mondo non ci sarebbero più guerre. Mio fratello stava male. Se avesse avuto qualcuno che capiva, tutto sarebbe stato diverso». 

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Il Messaggero