Era tutto un altro spartito quello che doveva suonare nella grancassa della propaganda grillina, lo stesso disco che suona da cinque anni e che ha fatto da colonna sonora...
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Mafia capitale, la moglie di Carminati: «Riporto a casa mio marito»
Mafia Capitale, Panzironi: «Cosco Buzzi, mai visto Carminati: non potevano accusarmi di mafiosità»
Restava, appunto, il brand «Mafia Capitale», il vanto del filo spezzato con «quelli di prima». Raggi ieri si è presentata nel Palazzaccio della Cassazione poco prima delle cinque di pomeriggio. «Oggi è una giornata storica per Roma - la dichiarazione davanti ai microfoni - si chiude una vicenda che ha ferito la città. Siamo qui per tutti i cittadini onesti che insieme a noi combattono contro il malaffare». Accanto a lei, il presidente grillino della Commissione Antimafia, Nicola Morra. Anche lui apparso spiazzato dopo il dispositivo letto dagli ermellini: «Le sentenze si rispettano... Ma le perplessità, i dubbi, le ambiguità permangono tutte». Concetto ribadito in serata da Luigi Di Maio, per il quale la «mafia è un atteggiamento». E rispolvera sui social l'hashtag #mafiacapitale .
LA REAZIONE
Anche Raggi, quando è uscita dall'Aula di piazza Cavour, ha rilasciato solo una battuta rapida ai cronisti che l'aspettavano, prima di infilarsi in auto. La sentenza, ha detto, «conferma comunque il sodalizio criminale...». E ancora: «È stata scritta una pagina buia della storia della città. Lavoriamo insieme ai romani per risorgere dalle macerie che ci hanno lasciato, seguendo un percorso di legalità e diritti». Qualcuno, anche nel suo entourage, si è interrogato sulla scelta di presenziare all'ultima tappa del processo, visto come è andata. «Ma in questi casi il primo cittadino non può mai mancare, ci ho messo la faccia», è la linea di Raggi.
Sentenza del processo Mafia Capitale (Cecilia Fabiano/Ag.Toiati)
Se ne va così una narrazione - meglio: uno slogan - che ha fatto la fortuna di post Facebook e di comizi di tutto il M5S. Raggi in fin dei conti ha solo capitalizzato un tesoro che gli altri avevano costruito, pezzetto dopo pezzetto. Il 3 dicembre del 2014, dopo i primi arresti, Alessandro Di Battista, Luigi Di Maio, Roberta Lombardi e i 4 consiglieri capitolini (capitanati da Marcello De Vito, finito poi nei guai per lo stadio) si presentarono in Comune con le arance (simpatico presente per i politici finiti in carcere) e poi corsero in prefettura per chiedere lo scioglimento del Campidoglio per «mafia». Da quel momento niente è stato come prima: il Pd è diventato «il partito dei mafiosi» (Paola Taverna), passato da Berlinguer alla piovra di Buzzi e Carminati (Di Maio). Benzina per la propaganda e per voti a palata: di là la mafia, di qua gli onesti. Fino alla sentenza della Cassazione che spunta un'arma alla sindaca, specie ora che i compagni di partito l'hanno abbandonata. Forti di un'altra sentenza, politica: «Non è adeguata ad amministrare».
Simone Canettieri
Lorenzo De Cicco
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Il Messaggero