James Senese: «Io, ancora in pista a 77 anni. Merito una festa»

James Senese (Foto Mario Spada)
A 77 anni, dopo una vita passata on the road, seduto sui sedili dei furgoni che l’hanno portato a girare l’Italia, prima al fianco di Mario Musella e degli Showmen,...

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A 77 anni, dopo una vita passata on the road, seduto sui sedili dei furgoni che l’hanno portato a girare l’Italia, prima al fianco di Mario Musella e degli Showmen, poi dei Napoli Centrale, poi con Pino Daniele, poi ancora con la sua band, il corpo è stanco. Ma James Senese, che stasera arriva a Roma con il tour legato all’album James Is Back (dalle 21 sarà al Villa Ada Festival), di appendere il sax al chiodo proprio non ne vuole sapere. C’è qualcosa di magico che permette al leggendario sassofonista “nero a metà”, nato a Napoli come Gaetano Senese nel ‘45 dall’unione tra una ragazza napoletana e di un soldato afroamericano che se ne tornò negli Usa quando lui aveva due anni («Non l’ho mai conosciuto, di lui mi sono rimasti i dischi che portava a casa e una fotografia»), di trovare ancora fiato nei polmoni spremuti chissà quanto. 

Cosa? 
«La musica stessa. Senza dischi e concerti sarei niente. Forse sarei già morto». 
Addirittura? 
«Sì. Sono stanco, non lo nascondo. Ma appena salgo sulla pedana gli acciacchi e la stanchezza scompaiono. Il pubblico è sempre così affettuoso, poi. Si entusiasma in modo tremendo, scegliendo di venire ad ascoltare una musica che per noi è normale, ma non lo è». 
Che vuole dire? 
«Siamo abituati alle canzonette che girano oggi, ormai. Assuefatti. Nessuno prende direzioni diverse, alternative. Io mi sento un extraterrestre, nella scena musicale italiana».
I giovani non la incuriosiscono? Non li ascolta? 
«Non c’è niente da ascoltare. Sa qual è il fatto? Che io e quelli della mia generazione, al di là della gavetta, che per come la vedo io resta sempre fondamentale se vuoi fare questo mestiere, avevamo alle nostre spalle un sentimento molto forte. Che i ragazzini di oggi non hanno».
Che tipo di sentimento? 
«Si chiama: motivazione. I giovani di oggi l’hanno persa. Non sono motivati. Parlo in generale».
Quando la chiamano “maestro” le fa piacere o si sente in imbarazzo? 
«Nessuna delle due cose: mi dà fastidio».
Perché? 
«Perché non mi sento un maestro: sono James e basta. E poi francamente mi sembra un contentino…».
Cioè? 
«Perché non mi sento sufficientemente omaggiato».
Che fa, se lo dice da solo? Non le basta una carriera come la sua, raccontata nel documentario che nel 2020 le ha dedicato il regista Andrea Della Monica, presentato a Venezia?
«Dovrebbero fare qualcosa di più per me, che a 77 anni sto ancora in pista. Continuo a suonare e a cantare i vinti, quelli che non hanno mai avuto voce. Io gliel’ho data con l’energia e la rabbia del mio sax, con coraggio e determinazione. L’anno prossimo cadrà il quarantennale dell’uscita del mio primo album, James Senese: magari una festa me la merito».
Prima c’è la cerimonia di consegna delle Targhe Tenco, a fine ottobre: è candidato con il suo nuovo album “James Is Back” come “Miglior album in dialetto”. 
«Lo vinsi già nel 2016 con ’O Sanghe dei Napoli Centrale: se lo vincessi di nuovo sarebbe una bella soddisfazione. E una piccola rivincita su certi vecchi pregiudizi».
Quali? 
«I napoletani avrebbero dovuto identificarsi in me, ma per alcuni il colore della pelle è stato per diverso tempo un limite, nonostante io sia napoletano di nascita e non abbia mai lasciato questa città. Il lavoro che ho fatto è stato cercare un unico suono: quello della verità, il mio essere nero e bianco. Per potermi ritrovare e rintracciare la mia identità. Le canzoni mi danno una carica emozionale notevole: per me rappresentano il presente, ma anche il futuro. Sono molto di più che semplici canzoni: lo specchio della mia vita. In questi brani si sente il soffio del mio cuore».

Laghetto Villa Ada, via di Ponte Salario 28. Stasera, ore 21

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Il Messaggero