L'italianista Serianni riabilita i bimbiminkia che scrivono "anke"

L'italianista Serianni riabilita i bimbiminkia che scrivono "anke"
a volte basta essere attenti e capire ke c'è ki ti kiede anke senza kiedere @lory_asti Generazioni di studenti hanno...

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a volte basta essere attenti e capire ke c'è ki ti kiede anke senza kiedere


@lory_asti



Generazioni di studenti hanno avuto e hanno tuttora il privilegio di seguire le lezioni di storia della lingua italiana tenute all'università La Sapienza da Luca Serianni. Studiare l’evoluzione dell’italiano nel corso del tempo è un’esperienza molto formativa: abitua a concepire la lingua come un codice mutevole, e dunque educa a non considerare la grammatica una religione a cui obbedire per paura di chissà quale punizione divina, ma solo un insieme di regole convenzionali che servono a comunicare con gli altri.



Un breve assaggio degli insegnamenti impartiti da Serianni ai suoi allievi si trova ora nel libro “Prima lezione di storia della lingua italiana” pubblicato da Laterza. Un esempio (uno fra tanti) delle piccole scoperte che si possono fare leggendo il prezioso libro riguarda l'uso della lettera c. Nei documenti medievali parole come “anche”, “chi”, “incontro” si trovano talvolta scritte: “anke”, “ki”, “inkontro”. Solo in epoca più tarda il grafema k è sparito dai testi in volgare, soppiantato dalla c (per influsso del latino che non usava la k). La cosa interessante però è che quella forma grafica, oggi considerata una manifestazione di sciatteria linguistica tipica degli adolescenti, in realtà non viene bocciata da Serianni.



La k - spiega lo studioso - avrebbe potuto essere «un segno pienamente funzionale» per indicare il suono della velare sorda (“oka” invece di oca, “kiedo” invece di chiedo) e per distinguerlo dal suono dell’affricata (ciò, ciao, cibo) senza bisogno di aggiungere h mute o i grafiche. Così uno dei massimi italianisti viventi riabilita, almeno per questo singolo aspetto, la lingua dei cosiddetti bimbiminkia.



pietro.piovani@ilmessaggero.it Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero