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«Oggi il totale quant'è?» chiedeva Kui Wen Zheng il 3 agosto del 2020 ad un uomo che era entrato nel negozio di via Napoleone III con una busta piena di soldi. «Duecento...». Le microspie del Gico, istallate nell'attività, captarono non solo le parole. I finanzieri riuscirono a sentire la macchinetta conta soldi - quella che Zheng aveva "importato" dall'Asia «è veloce... è stata comprata in Cina» - entrare in funzione. E il "cliente" che commentò: «Io ci provo a portarli tutti sistemati...ieri sono arrivati centomila euro da cinque euro... non puoi capire per contarli! Cose da matti guarda!». Il cinese aggiunse: «Oggi basta o porta ancora?». Risposta: «Non lo so guarda, abbiamo fatto un milione...questa settimana...un milione due e cinquanta...».
Il cliente in questione non è un mero galoppino: «Faccio il trafficante - diceva - mica lo spacciatore». Si chiama Simone Capogna, classe 1981, anche lui finito in carcere a seguito dell'operazione della Guardia di Finanza coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia. Ed è il fratello di Fabrizio Capogna, un pregiudicato al vertice di una delle organizzazioni che con i cinesi faceva "affari d'oro". Simone era quello che, una volta preso il denaro del traffico e dello spaccio, che veniva scrupolosamente contato da un altro arrestato - Flavio Bocca, classe 1981 -, lo portava all'Esquilino. Ma al vertice dell'organizzazione c'era Antonio Gala (napoletano, all'epoca latitante) e il fratello di Simone, Fabrizio, che dal carcere di Rebibbia dove si trovava nel 2020 per precedenti specifici, tramite un telefono criptato gestiva le consegna e lo stoccaggio della droga - hashish ma anche cocaina - che Gala faceva arrivare principalmente dalla Spagna. Il loro non è un gruppo criminale di secondo piano. Gli investigatori già negli anni scorsi addebitarono a Fabrizio il cosiddetto "metodo Capogna". Lui, tra i referenti dello spaccio a Tor Bella Monaca, aveva "ideato" il sistema della staffetta su moto a noleggio dietro le auto che trasportavano droga. Lo stupefacente non doveva essere "toccato", diceva, ma bisognava "accompagnarlo". Ma Simone Capogna non è l'unico che varcò il negozio all'Esquilino cercando «Luca» (nome in codice di Zheng) e pronunciando quella parola chiave "Alpe" tramite cui venivano identificati "particolari" clienti. Nel novero degli habitué oltre a un poliziotto (Andrea Nobili D'Avach, classe 1974) c'era un'altra consorteria romana.
Quella che faceva capo a Federico Latini, conosciuto nell'ambiente criminale come il "matto" o "Jhonny", all'epoca delle indagini ai domiciliari per aver tentato di uccidere un pregiudicato romano nel 2016 a Torpignattara.
CAMORRA E NDRANGHETA
Ma all'Esquilino ci era arrivata anche la camorra e la ndrangheta. La prima per mano di Michele Sannino, campano classe 1976, precedenti per associazione di tipo mafioso poiché arrestato nel 2005 insieme ad altri 95 pluripregiudicati e considerato affiliato al clan Mazzarella di Napoli. Al cinese, Sannino portò ben 530 mila euro. La seconda per il tramite di Santo Flaviano, appartenente al mandamento di Reggio Calabria. In questo caso è proprio Zheng che parte da Roma per recuperare 500 mila euro. Ma a lui si rivolgerà più tardi anche Rizeri Cua, nato a Locri nel 1978, considerato uomo del mandamento tirrenico che gli portò in negozio altri 500 mila euro da far "sparire". Leggi l'articolo completo suIl Messaggero