Fratelli criminali e soci in affari, in grado di portare avanti direttamente dal carcere un business illegale da 300mila euro al mese, e di trasformare il quartiere di Tor Bella...
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I fratelli Bevilacqua e Romano - hanno cognomi diversi perché hanno in comune solo la madre - erano i capi e organizzatori dell’associazione. “Bruno lo zingaro” era temuto e rispettato, «delinque incessantemente dal 2003», sottolineano gli inquirenti. Nonostante fosse in carcere da tempo, per tutti la piazza continuava ad essere di sua proprietà: nel quartiere c’era «la piena consapevolezza - annota il gip - che, una volta libero, sarebbe ritornato in prima persona a gestirla». La sua fedina penale è macchiata da una lunga lista di precedenti e gli inquirenti descrivono la sua «indole violenta», nota a tutti quelli che lo conoscono. Ma non era l’unico temuto della famiglia: anche la moglie Alessandra Conte - pure lei arrestata - era rispettata, perché tutti sono certi che tenesse aggiornato il marito «su come procedevano le condotte dei singoli associati e gli affari illeciti», in grado di fruttare circa 10mila euro al giorno. Era lei, secondo l’accusa, ad aggiornare Bevilacqua e a consentirgli di gestire il business anche della prigione.
La banda era organizzata nei dettagli: ognuno aveva un compito preciso. Vedette, pusher - anche minorenni -, cassieri, fornitori, addetti alle questioni legali in caso di arresto. Il tutto «per soddisfare in qualsiasi ora del giorno e della notte, in ogni periodo dell’anno, centinaia di acquirenti, ma anche di far fronte ad imprevisti, come l’arresto di singoli spacciatori o la loro temporanea impossibilità ad osservare i turni, con la pronta sostituzione con altri soggetti», si legge nell’ordinanza. I guadagni venivano divisi in modo prestabilito: ai due fratelli l’80 per cento, il 15 per cento a chi si occupava di confezionamento e rifornimento, il restante 5 per cento ai pusher. Le vedette avevano uno “stipendio” fisso: 100 euro al giorno. Ed erano previste anche decurtazioni in busta paga e punizioni per chi sgarrava.
La droga, al cellulare e anche di persona, veniva chiamata con nomi in codice: pallette, macchina, telefono. L’ordinanza è piena di conversazioni criptiche: «Ce piamo un caffè?», «ce magnamo qualcosa?», «sali, se famo na partita a play». Per il gip non ci sono dubbi: erano tutti codici per concordare la compravendita di stupefacente. Droga che era davvero nascosta ovunque, tra via Ferruccio Mengaroni, via Scozza e via San Biagio Platani: grondaie, saracinesche, zolle di terra, auto parcheggiate, aiuole. Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero