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«Diciamo, cioè, appunto...». Capita di questi tempi di imbattersi in un’interrogazione del figlio in dad. Di cadere in tentazione e origliare cose che non avremmo mai saputo, una serie di silenzi (o riflessioni), balbettii (o ripensamenti) di cui se fossero stati a scuola non saremmo mai venuti a conoscenza. Bastava un “mamma ho presto 7-“ e non si approfondiva più di tanto. L’arte dell’orazione mista alla fifa dell’interrogazione erano fatti loro. E così dovrebbero essere. Se non fosse che in dad siamo tutti qui, e se una voce stentorea o incerta, dietro la porta chiusa colpisce la mamma di passaggio in corridoio è finita. Si metterà a contare quante volte il figlio argomenta quanto richiesto intercalando con un diciamo (una ventina), un appunto (quasi 30) un bel po’ di praticamente, tipo, per esempio, e tutta una serie di frasi fatte che escono mentre pathos e cervello contestualmente si organizzano tra loro. C‘è chi non ce la fa, la maggior parte delle mamme a casa a quell’ora, l’ora dell’interrogazione, prende ed esce, di corsa. Affari suoi, come sempre. Inutile star lì a scoprire che quella battuta pronta, parlantina, prosopopea, quella gran proprietà di linguaggio insomma, davanti alla prof e a un’interrogazione spesso spariscono in un diciamo.
Il Messaggero