Il dibattito politico a colpi di (discutibile) poesia romanesca

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Comunque “sinnaco” a Roma non l’ho mai detto, né sentito! @max_shining «Er sinnaco de...

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Comunque “sinnaco” a Roma

non l’ho mai detto, né sentito!
@max_shining


«Er sinnaco de Roma nun se tocca...». La poesia in dialetto romanesco a sostegno di Virginia Raggi, pubblicata sabato scorso dal blog di Beppe Grillo, non ha fatto grande onore alla poesia e neanche al romanesco. Né si può dire che volassero alto le tante risposte in (chiamiamoli così) versi scritte il giorno stesso dai detrattori della sindaca. Il livello è quello dei versificatori improvvisati che in passato potevano al massimo trovare spazio nei quadretti appesi alle pareti delle trattorie romane, e che oggi con i social network conquistano a volte platee di una certa vastità. Neanche la scelta di un soggetto politico sorprende, i bardi nostrani hanno sempre avuto l'aspirazione di rinverdire i fasti satirici di Pasquino, dimenticando peraltro che ai tempi d'oro le pasquinate erano scritte in latino o in un coltissimo italiano.

Sia chiaro, la scrittura in metrica è un bell’esercizio di stile che va sempre apprezzato. Non è obbligatorio essere Dante Alighieri per poetare, così come per tirare due calci a un pallone non bisogna essere per forza Totti. Semmai la sfida politica capitolina combattuta a colpi di endecasillabi e di vernacolo fa sorgere una domanda: come mai a Roma ci sono così tanti rimatori dilettanti («gli inesorabili poeti della domenica» li definì l’esperto di romanistica Luigi Ceccarelli) e così pochi professionisti? Le dita di una mano sono anche troppe per contare i grandi autori della nostra letteratura dialettale, anzi si potrebbe forse dire che in questa città nasce un vero poeta ogni secolo, un po’ come nel calcio ci siamo abituati a vedere uno scudetto giallorosso ogni venti anni, quando va bene.

Essere un vero poeta non significa solo scrivere bei versi: bisogna inventarsi una poetica. Duecento anni fa Giuseppe Gioachino Belli ebbe l'idea di sposare l'astrazione della forma petrarchesca con la materialità plebea del romanesco, generando una delle più grandi invenzioni letterarie della storia dell'umanità. Dopo di lui, Cesare Pascarella seppe trasformare in poesia il parlare piccolo borghese della nuova capitale d'Italia. Facendo un rapido calcolo, è legittimo pensare che ormai ci siamo quasi: per il prossimo grande poeta romanesco dovrebbe essere arrivato il momento di farsi vivo. Speriamo che si sbrighi.


pietro.piovani@ilmessaggero.it
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Il Messaggero