“Come dice l’archeologo Carandini: a Roma un degrado da caduta dell’Impero” @Cobotwitt E invece, no....
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E invece, no. Semmai, girando per Roma, nella tristezza di quest’epoca, più che la maestosa caduta da basso impero alla Romolo Augustolo – che comunque chiudeva una fase gloriosa da Caput Mundi – sembra di vedere la Rometta stanca e svogliata, apatica e ripiegata su se stessa, del tempo pre-unitario. Di quell’Ottocento papalino in cui i viaggiatori stranieri venivano quaggiù e raccontavano nei loro reportage la bellezza di un gigante accasciato.
La sequela urbana dei prati incolti e abbandonati, che tutti possono vedere in questi giorni, sembra ricalcare “le spianate d’erbacce”, perfino di fronte alla basilica di San Giovanni in Laterano, che scandalizzavano e insieme deliziavano – il declino degli altri provoca l’estasi del pittoresco in chi arriva da fuori – i viandanti europei. E c’era chi a quel tempo descriveva questa città come “abitata da barbari municipali” o come – parola di Emile Zola – un “luogo nauseabondo”.
A metà Ottocento, l’americano James Jackson Jarves considerava la città dei Papi alla stregua di un accampamento di rovine e Roma gli appariva “come un glorioso relitto aggrappato alle propaggini cretose sulle quali sembrava aver fatto naufragio”. Poi, quando Roma diventa capitale, nel 1870, cambia il proprio volto in maniera drastica. E dieci anni dopo l’Urbe appare una città nuovamente vitale e politicamente pesante. Un ciclo era finito, un altro era cominciato. E noi adesso stiamo rispolverando il ciclo sbagliato. mario.ajello@ilmessaggero.it Leggi l'articolo completo su
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