Coronavirus, il medico di base: «Un mese di calvario, noi lasciati senza armi»

«Quello che mi porterò dentro per tutta la vita è il senso di incertezza che mi ha accompagnato per tanti giorni e il paradosso di essere stato io ad aver...

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«Quello che mi porterò dentro per tutta la vita è il senso di incertezza che mi ha accompagnato per tanti giorni e il paradosso di essere stato io ad aver avuto bisogno di cure, di aiuto per uscire dall'incubo del Covid-19». Giovanni Papa, medico di famiglia, parla lentamente. Qualche colpo di tosse ogni tanto interrompe ancora il suo discorso ma il traguardo verso la guarigione è ormai vicino. «Dovrò restare a casa fino al 25 aprile, giorno di Liberazione, e per me, quest'anno, assumerà un significato molto diverso». Papa ha 35 anni e dallo scorso febbraio ha aperto il suo ambulatorio ma da mesi presta servizio nella guardia medica e il coronavirus l'ha contratto a lavoro. «In centrale - dice - sono riuscito a individuare il possibile contagio tra l'8 e il 9 marzo». I sintomi sono arrivati a distanza di qualche giorno. «La notte tra il 12 e il 13 marzo - ricorda Papa - ho iniziato ad avere febbre molto alta anche fino a 39,5 poi dei dolori molto forti alle gambe, un senso esteso di astenia, la mancanza di gusto, la perdita dell'olfatto».


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UN'AMARA CONSAPEVOLEZZA
Lo ha capito subito di essersi preso il coronavirus «altri miei colleghi lo hanno avuto». E in quella notte è iniziato il suo incubo. «Per giorni non ho saputo cosa fare, il tampone me lo hanno fatto dopo 13 giorni e sono risultato positivo». Ne è uscito grazie all'assunzione di un antibiotico (un macrolide) e di un farmaco contro la malaria anche se, a ieri, passati quasi del tutto i sintomi, i tamponi di controllo hanno evidenziato ancora un'alta carica virale. «Non ho neutralizzato il coronavirus ma sto molto meglio, dovrò restare a casa per altre due settimane». In questi giorni, in cui continua ad assistere i suoi pazienti da remoto «molti mi chiamano anche per ricevere rassicurazioni», il dottor Papa ha avuto il tempo per fare un bilancio. «Della mia vita, della mia professione che riguarda tante altre persone chiamate a impegnarsi in questo frangente per aiutare gli altri, ma ho anche avuto modo di riflettere sulla condizione che investe i medici di famiglia al tempo del coronavirus». Le sentinelle del territorio, quelle che si interfacciano per prime con i casi sospetti. «Cerchi di mantenere la lucidità, di essere fedele a quell'impegno che giuri al momento della laurea ma devo anche riconoscere che in questa battaglia noi medici di famiglia siamo stati buttati sul campo a combattere senza baionette ma con in mano solo mazzi di fiori». Dall'esplosione dell'emergenza ad oggi sono cambiate molte cose: i dispositivi di protezione sono ora garantiti alla stragrande maggioranza del personale sanitario impegnato al fronte ma quando Papa ha contratto il virus «le mascherine scarseggiavano ed è chiaro - prosegue Papa - che in una condizione che non conosce precedenti, bisogna accettare anche i possibili limiti del sistema ma continuare a prestare servizio perché questo fanno i medici: assistere chi non sa come difendersi».

L'AUGURIO

«Da quando sono diventato paziente Covid il sistema non mi ha più abbandonato - conclude il dottore - lo devo riconoscere perché lo sforzo di tutti gli attori è enorme. Ma la medicina generale ha lavorato in modo così capillare che grazie ai medici di famiglia, c'è stata la possibilità di evitare un'ulteriore ascesa dei casi ospedalieri». Alla fine un augurio non tanto per se stesso ma per il «comparto della sanità tutta: spero che dopo questa emergenza - conclude Papa - lo Stato rifletta sulla necessità di investire nella medicina generale, nelle guardie mediche, nel territorio che oggi come in futuro resteranno sempre il primo avamposto per ogni emergenza». Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero