Siamo in un municipio di Roma, nell'ufficio che rilascia le nuove carte d’identità. Da una parte del tavolo c’è un uomo che chiameremo Luca,...
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Altri si sarebbero rassegnati - per quieto vivere, per non perdere tempo, per non sprecare un appuntamento atteso quattro mesi - a scattarsi una nuova foto nell'apposita macchinetta, per fortuna collocata a pochi passi dall'ufficio, l'avrebbero consegnata all'addetto e avrebbero chiuso la questione. Ma Luca no. Lui è quel cittadino che un impiegato pubblico non vorrebbe mai incontrare, puntiglioso, ostinato, preparato. Fissa un nuovo appuntamento (altri quattro mesi di attesa) e si ripresenta esibendo la circolare del ministero dell'Interno: la norma è chiara, sono vietati gli occhiali da sole, non quelli da vista. L'impiegata non si convince affatto e anzi si risente: la dicussione si accende. Luca si sente dare del provocatore e del perditempo, e alla fine non ottiene nulla. Ma non si arrende: prende un nuovo appuntamento, questa volta all’anagrafe di via Petroselli.
Allo sportello dell'anagrafe centrale, Luca posa fieramente sul bancone la sua foto con gli occhiali. E' pronto ad affrontare una nuova contestazione, e invece a sorpresa l’impiegato procede con la pratica senza sollevare obiezioni. Gli spiegherà poi che l'unica cosa che conta è la riconoscibilità della persona, quindi se il cittadino indossa abitualmente gli occhiali da vista è giusto che ce li abbia anche sul documento.
Oggi Luca ha la sua carta di identità elettronica in tasca. Per averla ci ha messo quasi un anno, dalla prenotazione del primo appuntamento al momento del rilascio. Quando ripassa per gli uffici del suo municipio trova ancora affisso alla parete il cartello che recita: “Per le carte elettroniche foto senza occhiali”. Lo guarda e commenta: «Su quel cartello non c’è un timbro, né una firma, né un riferimento normativo».
pietro.piovani@ilmessaggero.it Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero