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Gianpiero Cioffredi, lei è il Presidente dell’Osservatorio per la legalità della Regione Lazio: molti pezzi da novanta del narcotraffico e della malavita romana sono fuori dal carcere ottenendo di essere curati in comunità come tossicodipendenti. È un caso?
«No, non può essere. Sicuramente ci sarà una falla nel sistema di cura che permette loro di uscire di galera a dispetto dei tanti criminali comuni e tossicodipendenti non gravati da reati di rilievo e fuori dal giro della malavita organizzata che, invece, paradossalmente, restano dentro. Ho verificato i protocolli di inserimento nelle liste dei Serd (i Servizi per le dipendenze, ndr) e sono estremamente rigidi: sono previsti due esami alla settimana delle urine e vari colloqui. Ma l’inchiesta che vede indagato lo psichiatra del San Giovanni, Andrea Pacileo, evidenzia come fosse lui a consigliare come comportarsi durante l’esame delle urine nei Serd. E sicuramente ci sarà una modalità praticata sistematicamente dai clan per ottenere le certificazioni per la tossicodipendenza anche attraverso pressioni intimidazioni. Questo fenomeno sta dilagando e le inchieste lo dimostrano».
Quali?
«Ce ne è una sulla piazza di spaccio di via dell’Archeologia a Tor Bella Monaca, per esempio, che racconta di come il luogotenente David Longo ricerchi affiliati soprattutto tra coloro che sono iscritti al Serd o, comunque, si mette in moto perché ci si iscriva sebbene non si consumi droga realmente, ma solo per potere usufruire un domani, in caso di arresto, del beneficio di legge. Ugo di Giovanni, importante personaggio molto vicino al clan Senese, arrestato nell’ambito dell’inchiesta dei carabinieri Alba-Tulipano, mandato agli arresti domiciliari presso la comunità terapeutica aveva ripreso da lì a gestire e a organizzare i traffici di cocaina, ricevendo addirittura ospiti. Così faceva anche Carlo Zizzo che della comunità aveva fatto la sua base del narcotraffico. Dello stesso trattamento alternativo al carcere sono o sono stati beneficiari Walter Domizi, il dominus di Primavalle e Marco Turchetta, sodale del defunto Fabrizio Piscitelli alias Diabolik, così come tanti altri broker i che dirigono le partite mondiali di hashish e cocaina. Bisogna mettere un freno».
Che cosa si può fare?
«Certo non bisogna criminalizzare il sistema per cui i tossicodipendenti debbano essere fuori dal carcere per curarsi ma sicuramente i boss è bene che si curino all’interno come dovuto.
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E quale?
«Questo sistema alimenta l’omertà. Non ci sono più pentiti».
Si spieghi meglio.
«Da una parte chi gestisce i gruppi criminali usa metodi di intimidazione estremamente violenti, ma dall’altra assicura un welfare interno al sodalizio sempre più perfezionato negli anni che scoraggia o non rende convenienti ripensamenti. Che bisogno c’è di collaborare con la giustizia, infatti, se certi sconti e benefit si possono ottenere in altri modi? Un grave vulnus per le inchieste di polizia giudiziaria nella regione». Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero