“Ah, la nostalgia di quegli anni in cui ero un giovane esponente della borghesia romana. Che i miei privilegi...
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in cui ero un giovane esponente
della borghesia romana. Che i miei
privilegi possano insegnarvi qualcosa"
@degraldo
A proposito di borghesia romana, chissà se Marco Ferrante abbia mai letto Alberto Moravia. Probabilmente, sì. O forse, no. Ma non importa. Nel suo romanzo, “Gin tonic a occhi chiusi” (Giunti editore), c’è comunque la descrizione post-moraviana dell’indifferenza tipica di quelle che dovrebbero essere le classi dirigenti della Capitale e che sono invece l’incarnazione, molto romana, appunto, della fuga dalle responsabilità.
Se Roma è quella che è, lo si deve anche al fatto che i tre fratelli inventati da Ferrante nelle sue pagine - i Misiano, allo stesso tempo integrati e smidollati nel comodo milieu di questa città, tra professionismo, blanda politica di sistema e insostenibile leggerezza dell’essere - rappresentano la continuità del disimpegno civico da parte di chi si è sempre sottratto a un ruolo attivo.
Il primogenito dei Misiano, Gianni, è un fiscalista di grido. Paolo è un deputato quarantenne, perplesso portavoce di una campagna contro l’energia eolica. Ranieri, il più giovane, è giornalista conformista, frivolo e furbetto. Il contesto in cui si muovono è una melassa profonda, che non ha nulla di leggerista a parte la patina. Scriveva Moravia: «Quella di Roma è una borghesia coloniale, tipica di una città alessandrina, levantina, meticcia. Una volta c’era il ceto del generone. Formato da mercanti di campagna che all’ombra del Vaticano trafficavano tra il Lazio, l’Abruzzo e le Puglie. Ora anche il generone tende a scomparire. Diciamola tutta: una borghesia degna del nome deve cominciare col tagliare la testa al re e cacciare via i preti». E non è detto che non lo si possa fare, prima o poi, anche ciucciando un gin tonic.
mario.ajello@ilmessaggero.it Leggi l'articolo completo su
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