Appena sono sbarcati verso le 17.30 a Fiumicino, i 276 passeggeri arrivati ieri da Dacca con un volo speciale hanno trovato ad attenderli i medici dell’Asl Roma 3 per fare...
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Per gestire senza rischi queste operazioni, a Fiumicino è stato deciso di far sbarcare i passeggeri dal Bangladesh al T5, terminal chiuso da anni e non più operativo, un tempo destinato ai voli sensibili (Usa o Israele). Blindato all’esterno, nel T5 è stata allestita la task force sanitaria con medici della Asl, del ministero e della Croce rossa, che dopo aver misurato loro la temperatura, ha sottoposto i 276 viaggiatori ai test. Tra loro pochi parlano italiano, con la maggior parte a Roma per riprendere il proprio lavoro o trovarne uno. «Alloggerò a casa di miei connazionali - dice Fakir, 25 anni - spero che mi aiuteranno a trovare un impiego. Non mi sento la febbre e non posso permettermi di stare male. Ho bisogno di aiutare la mia famiglia rimasta a casa». Rientrato dal Paese asiatico, dopo essere andato a trovare i parenti, anche Haziri: «Vivo a piazza Vittorio e lavoro lì. Sono contento che ci controllino: ai miei connazionali hanno creato diversi problemi, come successo ai cinesi all’inizio dell’epidemia. Speriamo di non perdere il posto».
Intanto è alta la tensione all’interno della comunità bengalese romana. Lo dimostra il fatto che soltanto tre dei suoi componenti ieri si siano presentati in via Forteguerri, dove la Regione, con l’Asl Roma 2, ha allestito un drive in per fare i tamponi ai cittadini del Bangladesh. Spiega Fabrizio Ciaralli, direttore del distretto 5 dell’Asl 2: «Oggi, con il V Municipio, incontreremo i rappresentanti della comunità per organizzare un percorso di accesso al gazebo e sensibilizzarli».
Dalla comunità lamentano scarsa informazione e il timore di ritorsioni di stampo razzistico. Ma c’è chi ammette che alcuni bengalesi, non regolari, hanno paura a presentarsi al drive-in. Nure Alam Siddique detto Bachu, portavoce dell’Associazione Dhuumcatu, chiede sia residenze protette per i contagiati sia regole meno stringenti «per consentire anche ha chi ha il permesso di soggiorno scaduto di fare il ampone». «Alcuni partono da Dacca malati e vengono in Italia per farsi curare - racconta Mohammed Taifur Rahman Shah, presidente dell’Associazione Coordinamento Ital-Bangla & Sviluppo - Da noi il sistema sanitario è allo sbando e le cure sono a pagamento».
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Il Messaggero