​L'accusa caduta, perché il Tribunale ha escluso il 416bis

L'accusa caduta, perché il Tribunale ha escluso il 416bis
C’è un episodio, nelle pieghe del processo Mafia Capitale, che racconta meglio di qualunque arringa l’effettiva portata dell’accusa di associazione...

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C’è un episodio, nelle pieghe del processo Mafia Capitale, che racconta meglio di qualunque arringa l’effettiva portata dell’accusa di associazione mafiosa ipotizzata dalla procura di Roma. Poche settimane prima di essere arrestato, Massimo Carminati è alle prese con il telefono della sua villa a Sacrofano. Non funziona da giorni. Lui chiama il numero verde del gestore, in più occasioni e senza successo. Alla fine, all’operatore che gli dice di avere pazienza, risponde un po’ alterato: «Segnati stò nome: Massimo Carminati. Poi cercalo su Google, così capisci chi sono io. E se non ti sbrighi sai che faccio? Passo a Fastweb!».


L’ACCUSA SMONTATA
È anche analizzando intercettazioni come questa che i giudici hanno deciso di non condividere l’accusa di associazione mafiosa che per tre anni ha reso quel processo un “unicum” nella storia del malaffare romano. Perché pur emergendo la conferma di reati gravissimi che avvelenavano l’attività amministrativa del Campidoglio era difficile individuare nel modus operandi di Buzzi, Carminati e degli altri componenti del sodalizio, le caratteristiche comportamentali del capomafia. Non c’era il controllo del territorio né la violenza intimidatoria per ottenere omertà e assoggettamento, che - ad esempio - compaiono nelle indagini sugli altri gruppi della criminalità organizzata che si contendono la piazza di Roma, dai Senese ai Casamonica, fino ai Fasciani. L’ex ras delle coop e l’ex terrorista nero lusingavano con il denaro, con posti di lavoro, con favori; compravano la connivenza dei politici; si aggiudicavano appalti per i servizi della Capitale escludendo le aziende che potevano fare meglio di loro. Corrompevano e rubavano. Ma senza essere mafiosi.

I MERITI DELLA PROCURA
La conferma è nelle pene pesantissime stabilite ieri dal tribunale. Che, se analizzate senza il riflesso deformante dell’accusa (caduta) di 416bis, rappresentano un risultato senza precedenti per qualsiasi magistrato che indaga su vicende di corruzione: «Se all’inizio dell’inchiesta ci avessero detto che avremmo ottenuto condanne a vent’anni, avremmo pensato ad una ipotesi ottimistica», commentavano alcuni investigatori, in aula, dopo la sentenza. Resta da spiegare perché la procura abbia voluto “vestire” l’inchiesta con le suggestioni dell’associazione mafiosa. E anche capire cosa resterà di questa ipotesi di reato quando il processo arriverà in appello e in Cassazione. Perché a ingarbugliare tutto c’è una decisione della corte suprema presa all’epoca dei primi arresti, quando gli ermellini di piazza Cavour certificarono l’esistenza di un vincolo mafioso tra gli imputati e confermarono la validità degli arresti. «Quella fu una decisione presa sulla base delle carte della procura, quasi un atto di fede - dice l’avvocato Bruno Naso, difensore di Carminati - Il processo ha dimostrato altro».

L’APPELLO IN DUBBIO

Un’altra ipotesi è che il dilemma sull’esistenza dell’aggravante mafiosa per la la banda Buzzi&Carminati non sia neanche posto all’attenzione della Cassazione. Perché ieri, nell’ammettere che la sentenza «ci dà in parte torto», la procura non ha annunciato esplicitamente l’appello. «Dobbiamo leggere la sentenza» dicono a piazzale Clodio. E lasciano intendere che la quantità di condanne ottenute potrebbe bastare. E’ un pò quello che accadde dopo gli arresti, quando il capo della procura rinunciò a sollecitare il prefetto affinchè commissariasse per mafia il comune di Roma. Ne sarebbe derivato un danno di immagine enorme, e a piazzale Clodio, con grande responsabilità, scelsero la via della prudenza.
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Il Messaggero