Panama Papers, parlano i reatini coinvolti nella vicenda: «Ecco come ci siamo finiti dentro»

Panama Papers, parlano i reatini coinvolti nella vicenda: «Ecco come ci siamo finiti dentro»
RIETI - Sergio e Simone Vicari, gli imprenditori reatini, padre e figlio, coinvolti nel caso Panama Papers, hanno trovato il bandolo della matassa di una complicata storia che ha...

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RIETI - Sergio e Simone Vicari, gli imprenditori reatini, padre e figlio, coinvolti nel caso Panama Papers, hanno trovato il bandolo della matassa di una complicata storia che ha portato nelle loro vite insinuazioni e considerazioni non sempre positive.


«Finalmente, grazie all'aiuto dell’avvocato Alessandra Persio – raccontano - abbiamo capito da dove è partita tutta la storia. Abbiamo pagato un avvocato che si è recato a Panama ed è venuta fuori la verità». Tutto comincia quando, tra il 2012 e il 2013 Simone Vicari brevetta Next to me, un dispositivo indossabile che integra dieci sensori, destinato a promuovere stili di vita sani.

«Abbiamo pensato – racconta il padre – che il mercato più importante fosse la Cina e proprio ad Hong Kong abbiamo creato una società. Noi abbiamo avuto contatti con un istituto finanziario, il quale si è rivolto a Mossack Fonseca, gruppo di aziende con sede a Panama. E’ questo intermediario che ha avuto rapporti con loro, non noi».

«La società creata ad Hong Kong - continua Vicari – è rimasta aperta pochi mesi, poi abbiamo attivato una cooperazione con alcuni americani di Buffalo per partecipare ad un crowdfunding, per il quale era necessario avere una società in America e attraverso il quale abbiamo raccolto circa 52mila dollari per sviluppare il prodotto innovativo. Nella precedente società di Hong Kong non abbiamo aperto alcun conto corrente, né avuto transazioni finanziarie, come dimostrano le carte. La società è stata creata e subito chiusa vista la nuova opportunità offerta dall’America. Oggi – dicono padre e figlio – non ci interessa guardare al passato. Vogliamo chiudere la vicenda, prove alla mano, dicendo che abbiamo sempre fatto seriamente il nostro lavoro».
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Il Messaggero