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RIETI - Il 6 marzo di un anno fa il ricovero, che il giorno successivo verrà poi confermato come il primo caso di contagio Covid registrato a Fara Sabina, proiettò anche la provincia di Rieti nell’ineluttabilità del dover far parte del bollettino nazionale. Ma ventuno giorni dopo, il 27 marzo, fu in realtà il primo decesso avvenuto all’ospedale de Lellis a rappresentare l’autentico cazzotto nello stomaco della speranza collettiva che la provincia potesse infine, in qualche modo, salvarsi all’epilogo più tragico e feroce contemplato dal Covid. Senza neanche poter rivedere la sua famiglia per un’ultima volta, fu la 73enne Giuseppina Dattola la prima vittima in tutta la provincia reatina.
Quasi un anno dopo il figlio di Giuseppina, Andrea Pitoni, è al lavoro, come ogni giorno, nel suo bar “New Daniel”, inaugurato il 29 febbraio nel suo quartiere d’infanzia, Micioccoli, e chiuso subito dodici giorni dopo a causa del lockdown. Un anno dopo, ha resistito al lockdown e alla crisi generata dal Covid, ma la perdita della mamma è ancora «una combustione interna difficile da descrivere - racconta Andrea, gli occhi velati dalle lacrime. - Mamma iniziò a star male nella sua casa a Micioccoli in questi giorni, tra il 5 e il 7 marzo, con la febbre alta.
Il funerale inaccessibile
Il secondo dolore fu l’impossibilità per tutta la famiglia di poter essere vicini a Giuseppina almeno nel giorno delle esequie celebrate da Don Fabrizio Borrello. Di quel secondo, atroce giorno ad Andrea restano sullo smartphone le foto e i video prodotti al cimitero da un addetto dell’agenzia funebre: «Io, mia sorella e la sua famiglia eravamo in quarantena e mio padre in ospedale e nessuno potette essere presente - prosegue Andrea. - Ho dovuto organizzare il funerale per telefono, perché non potevo uscire: non si trovavano neanche i fiori, soltanto una rosa che l’agenzia funebre pose sopra la bara. Sono rimasto in quarantena 22 giorni in quella casa dove tutto mi ricordava di mia madre, insieme a Sbricio, il mio cagnolino: in certi momenti mi chiedo ancora come sono riuscito a sopravvivere, ma ce l’ho fatta anche grazie alle persone che tutto il giorno mi tenevano incollato al telefono. Però ho dovuto sopportare anche il panico di molti che mi chiamavano, dicendomi che erano stati a contatto con mia madre e chiedendomi cosa dovessero fare, come se fossi un medico. Ma quando sono potuto uscire, la prima cosa che ho fatto è stata andare al cimitero». Ora, per Andrea, conta soltanto poterla ricordare al meglio: «Scriveva poesie, con tanti riferimenti all’amore, alla natura e alcune le recitai anche in teatro, anni fa. Ora penso a raccoglierle in una pubblicazione, accompagnate dalle opere di Franco Bellardi».
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Il Messaggero