Infortunio sul lavoro e dopo anni il suicidio: il Comune dovrà pagare i danni parentali agli eredi

Giudice
RIETI - Non c’è stata una correlazione diretta tra il suicidio di un dipendente del Comune di Micigliano e la patologia psichica che aveva colpito...

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RIETI - Non c’è stata una correlazione diretta tra il suicidio di un dipendente del Comune di Micigliano e la patologia psichica che aveva colpito l’operaio, in conseguenza di un infortunio sul lavoro subito quattro anni prima, mentre lavorava all’interno del depuratore comunale. Vicenda già affrontata in sede penale, dove il reato di lesioni colpose nei confronti del sindaco e di un dirigente era stato dichiarato prescritto dalla Corte di Appello, dopo una prima sentenza di condanna emessa dal tribunale. Verdetto che, però, aveva previsto per l’amministrazione e i due imputati l’obbligo di risarcire i danni alla parte civile, quantificati ora in 57mila euro dal giudice del lavoro, che ha riconosciuto in favore della vedova e della figlia del lavoratore suicida il danno da “lesione parentale”, ma ha escluso la sussistenza del nesso di causalità che aveva portato la difesa delle ricorrenti a reclamare il risarcimento di un milione di euro.

I passaggi


Alla base della domanda, tra i diversi elementi, c’erano una relazione medico legale e il riconoscimento di una rendita da parte dell’Inail, concordi nell’attribuire il suicidio dell’uomo allo stress postraumatico derivante dall’infortunio avvenuto mentre effettuava le operazioni di pulizia, consistenti nella rimozione della schiuma formatasi sulla superficie della vasca dei liquami, all’interno della quale cadde dopo essere scivolato. L’operaio, in quel momento da solo all’interno dell’impianto, riuscì ugualmente a risalire sul bordo e a chiedere aiuto in Comune ai colleghi, che lo accompagnarono in ospedale, dove gli fu diagnosticata una polmonite, ma i periti (una psichiatra e un medico universitario) nominati d’ufficio dal giudice monocratico durante il processo penale celebrato a Rieti, non riuscirono a stabilire se l’infiammazione fosse stata causata dall’ingestione di acque chiare oppure scure, contrariamente a quanto sostenuto dal consulente di parte, deciso nell’attribuire la causa all’assunzione di batteri fognari. I due esperti esclusero solo l’esistenza di una relazione tra la morte e quanto accaduto nel depuratore. Dramma iniziato nel 2009, e per la vittima protrattosi quattro anni, fino alla decisione di farla finita a 61 anni perché, secondo il medico legale della famiglia, «non era più riuscito a liberarsi delle paure vissute mentre rischiava di annegare». Di qui, la tesi della correlazione tra il suicidio e i successivi disturbi post infortunio, che però il giudice Rosario Carrano non ha ritenuto fondata, recependo invece l’opposizione alle ragioni dei ricorrenti presentata per il Comune dall’avvocato Andrea Santarelli, già difensore di sindaco e dirigente (nel frattempo scomparso) in sede penale, latore di una offerta transattiva vicina alla cifra riconosciuta dal tribunale, proposta già durante lo svolgimento della causa civile. Leggi l'articolo completo su
Il Messaggero