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Anche perché uno dei fattori della sua crescita, e di quella di tutte le forze populiste europee, il declino della socialdemocrazia, sembra inarrestabile, spostando i voti dei lavoratori salariati e degli operai dalla sinistra verso le forze nazionaliste. Le elezioni austriache saranno - salvo imprevisti - nel 2017 ma la vittoriosa sconfitta della Fpo avrà effetti immediati.
Non solo in Ungheria e in Polonia sono al governo partiti con le stesse posizioni dell’Fpo, ma il voto austriaco potrebbe avere effetti sul referendum inglese, rafforzando i sostenitori del Brexit. Darà poi certamente una spinta al populista Geert Wilders nelle elezioni dei Paesi Bassi qualche mese dopo. E nel 2017 ci saranno le presidenziali francesi, con Marine Le Pen sempre in testa nei sondaggi: a oggi è improbabile che possa vincere, ma domani? Qual’è infatti il principale messaggio del partito austriaco e di quelli un po’ pigramente definiti “estrema destra” o “populisti” e che in realtà andrebbero chiamati per quel che sono, cioè nazionalisti? Oggi questo messaggio si racchiude in un “no all’Europa”. Un no che, a seconda dei programmi e dei momenti, va dalle promesse di uscire dalla Ue a quelle di abbandonare l’euro.
L’Fpo per esempio è favorevole a un’area dell’euro del nord, un’ipotesi “moderata”, discussa anche all’interno dei democristiani e persino dei socialisti tedeschi. Un no che non ha, almeno nel caso austriaco, origine economica; il reddito procapite austriaco è il quarto più elevato in Europa, superiore anche a quello tedesco. Sono infatti culturali le ragioni del no: ci si oppone all’immigrazione concepita come invasione e sostituzione dei “nostri” valori con i loro. È un no - in particolare - all’islam. E gli immigrati tanto più sono lontani tanto più fanno paura: è quello che i politologi chiamo “effetto alone".
Non a caso i voti a Hofer sono venuti dalle aree di campagna e dei piccoli centri meridionali, dove la concentrazione di immigrati e profughi è inferiore rispetto alle “grandi” città, che invece hanno votato per Van der Bellen.
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Il Messaggero