Risultato contestato/ Quell’America che non accetta il cambiamento

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Quel che distingue la tradizione liberale americana dai regimi europei è il consenso sui valori di fondo che accomuna gli avversari politici. Dopo ogni elezione per la...

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Quel che distingue la tradizione liberale americana dai regimi europei è il consenso sui valori di fondo che accomuna gli avversari politici. Dopo ogni elezione per la Casa Bianca, lo sconfitto riconosce al vincitore il diritto di guidare l’intera nazione a nome di tutti gli americani. Questa è la democrazia americana. 

Una democrazia che non è legata alle ideologie in permanente contrasto come avviene nelle tradizioni europee. Anche l’elezione di Donald Trump, nonostante l’asprezza e la volgarità che hanno immiserito la campagna elettorale, si è conclusa con il riconoscimento della legittima vittoria dell’eccentrico repubblicano da parte della candidata democratica. Una democrazia che non è legata alle ideologie in permanente contrasto come avviene nelle tradizioni europee. Anche l’elezione di Donald Trump, nonostante l’asprezza e la volgarità che hanno immiserito la campagna elettorale, si è conclusa con il riconoscimento della legittima vittoria dell’eccentrico repubblicano da parte della candidata democratica. 
Così, dopo mesi di polemiche, il compimento del processo elettorale ha seguito i buoni canoni tradizionali. Donald Trump, abbandonati i toni tracotanti, ha dichiarato di volere essere il presidente di tutti gli americani e di lavorare per unire la nazione. Hillary Clinton, pur nella malinconia dello storico fallimento, ha accettato il risultato augurando all’avversario il successo quale presidente di tutti gli americani.
Lo stesso Obama, che pure aveva ritenuto il repubblicano inadatto a governare, ha dichiarato che ora l’importante è perseguire il bene del Paese per cui ha avviato rapidamente la transizione dei poteri ricevendo il neo-presidente alla Casa Bianca. 
Alla fine, dunque, tutto si è risolto secondo le regole? Così è dal punto di vita istituzionale, ma non in alcune tendenze che stanno emergendo in settori della società che non accettano la sconfitta della propria beniamina. Nelle ultime ore masse di manifestanti hanno percorso le strade di numerose città a cominciare da New York per protestare «contro il razzismo, la misoginia, la xenofobia e l’islamofobia» del neo presidente, reclamandone in sostanza la deposizione. 
I cortei pacifici che percorrono Manhattan e le altre metropoli del Nord e dell’Ovest si sono talvolta trasformati in manifestazione violente che hanno dato alle fiamme l’effige di Trump e provocato scontri con la polizia con i relativi arresti di massa. L’anomalia di quel che sta accadendo non riguarda la legittima protesta che è garantita dalla Costituzione a tutti i cittadini americani indipendentemente dalle opinioni che esprimono, ma la volontà di una minoranza, per quanto attiva e rumorosa, di delegittimare dalla piazza quel che è stato sancito dal voto popolare. 
Nei Paesi liberaldemocratici, e gli Stati Uniti ne sono il maggiore esempio, può divenire pericolosa la contrapposizione tra le pretese di una minoranza e le decisioni legittime della maggioranza. Conflitti di questo genere rischiano di provocare la restrizione delle libertà che andrebbe a colpire proprio quel diritto al dissenso in nome del quale oggi molti americani scendono nelle strade. La questione che emerge dalle manifestazioni anti-Trump, per lo più pacifiche ma talvolta violente, non riguarda quindi i diritti dei singoli a esprimere pubblicamente il proprio pensiero quanto il diritto dei più di vedere rispettati i risultati del voto. 

Ci siamo tutti meravigliati quando, ancor prima delle elezioni, Donald Trump ha minacciato di non riconoscere l’eventuale vittoria della sua avversaria democratica, consapevoli che si trattava di un vulnus dei principi della democrazia americana. Allo stesso modo, oggi ci meravigliamo degli slogan nelle piazze del tipo «Questo non è il mio presidente» che sono in evidente conflitto anche con l’atteggiamento responsabile preso da entrambe le parti politiche.

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Il Messaggero